Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, 39 anni, cieco e tetraplegico dopo un incidente avvenuto nel 2014, ha provato ad aggrapparsi alla vita. Si è sottoposto a cure e terapie anche sperimentali, che non gli hanno restituito neppure una briciola di quell’esistenza che amava tanto.
«Vorrei poter scegliere di morire senza soffrire, ma ho scoperto che ho bisogno d’aiuto», dice nel videomessaggio indirizzato al Presidente della Repubblica affinché intervenga per sbloccare la legge sull’eutanasia, ferma in Parlamento dal 2013. Le parole sono sue, ma la voce è della compagna Valeria. Perché Fabo fatica a parlare, non può muoversi, è intrappolato in quella che lui definisce «una notte senza fine».
A 10 anni dalla scomparsa di Piergiorgio Welby, la battaglia per l’autodeterminazione del malato continua. Perché in Italia il dibattito sul fine vita non riesce a trasformarsi in regole chiare e condivise. Nel nostro Paese l’eutanasia attiva, cioè l’intervento di un medico che con il consenso del malato pone fine alle sue sofferenze, è un reato punito dal codice penale come omicidio del consenziente o come istigazione al suicidio.
Mentre l’eutanasia passiva, intesa come interruzione delle cure, trova un riscontro nella Costituzione italiana, secondo la quale “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
C’è un progetto per regolare questa ateria, come ricorda Fabo nel suo videomessaggio, depositato nel 2013 dal Partito Radicale e dall’Associazione Luca Coscioni, che parallelamente ha dato il via alla campagna “Eutanasia legale”.
Oltre 100mila italiani hanno firmato la petizione per sostenerla, ma l’approvazione della proposta legge sembra essere ancora molto lontana: a marzo dello scorso anno, la discussione si è arenata dopo solo una seduta delle commissioni parlamentari competenti.
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