Fino a dieci anni fa, si poteva parlare del mondo “dorato” degli infermieri: a sei mesi dalla laurea il 94% di loro era già al lavoro. Oggi, a un anno dal titolo, solo il 74% trova un impiego, al Sud ancora meno.
Ma soprattutto, la professione è avvolta da una contraddizione: viviamo in una carenza cronica di personale, eppure ne importiamo dall’estero mentre migliaia di infermieri di casa nostra emigrano, specialmente in Germania e Regno Unito.
Che cosa sta succedendo? Partiamo da alcuni numeri.
NE SERVIREBBERO 30.000 IN PIÙ
Gli infermieri iscritti all’Albo sono circa 440.000, ma escludendo i pensionati e i disoccupati (tra 16.000 e 20.000), quelli operativi sono 384.000 secondo la Fnopi (Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche), 264.000 di questi nel settore pubblico, gli altri nel privato.
«Ne servirebbero almeno 20.000 in più solo per rispettare la normativa europea su turni e orari di lavoro nelle strutture del sistema sanitario nazionale, che impone ad esempio 11 ore di stacco fra un turno e l’altro», spiega Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi. E sarebbe il minimo indispensabile, perché altri 10.000 permetterebbero di raggiungere il livello di efficienza ottimale, definito a livello internazionale con il rapporto di 3 per ogni medico. Una proporzione che in Italia si raggiunge in poche Regioni: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Molise e provincia autonoma di Bolzano, mentre in Calabria e Sicilia siamo addirittura a 1,9 per medico.
Quanto ai pazienti, nei nostri ospedali ogni infermiere ne assiste in media 11, ma si arriva a 16 in alcune Regioni. Un carico di lavoro eccessivo ma soprattutto rischioso, perché secondo studi pubblicati su alcune riviste internazionali, come il British Medical Journal, è dimostrato che la quota ideale sarebbe di 6 pazienti. Oltre quella soglia, sale l’indice di mortalità e il rischio di interventi fuori tempo in un determinato reparto. Perché allora non si corre ai ripari?
MENO RISORSE PIÙ PRECARI
«Anche la salute, purtroppo, è una questione di soldi», spiega Andrea Bottega, segretario nazionale del sindacato degli infermieri Nursind. Dal 2009, in modo particolare in tante Regioni del Sud, è scattato il blocco totale delle assunzioni pubbliche e si sono persi oltre 1.700 infermieri, andati in pensione senza essere sostituiti. Addirittura, da anni ci trasciniamo dietro una legge che obbliga gli enti locali a contenere la spesa per il personale sanitario ai livelli del 2004. Certo, queste misure restrittive sono servite anche a tamponare alcuni sprechi. Ma il servizio verso i cittadini è peggiorato.
In qualche caso, ricominciano ad aprirsi alcune porte. A Napoli (6 posti), Piacenza (7) e Bassano del Grappa (7) sono previsti nuovi concorsi per infermieri cui è ancora possibile iscriversi. «Ma parliamo di una goccia nel mare. Selezioni mostruose con migliaia di aspiranti per una manciata di posti», aggiunge il segretario Nursind. Come successo di recente al Palavela di Torino: in 5.000 all’esame per 20 posti.
Così, mentre si riducevano gli spazi, sono peggiorate le condizioni ed è arrivata la precarietà. Se gli ospedali pubblici e le Asl non possono assumere direttamente, che cosa fanno? Aggirano l’ostacolo cercando altre strade. Per esempio, si esternalizza un servizio (i più diffusi sono la dialisi e l’assistenza domiciliare) appaltandolo a una cooperativa. Oppure si attinge dalle agenzie di somministrazione lavoro o ancora, specialmente per i ruoli dirigenziali, si impone agli infermieri di lavorare come liberi professionisti a partiva Iva (sono già 40.000 in tutta Italia).
Il Nursind ha calcolato che oggi l’84% degli infermieri all’inizio di carriera parte con un contratto a tempo determinato (nel 2003 era il 24%). «Certo, è sempre meglio lavorare. Ma che si tratti di condizioni più sfavorevoli è oggettivo, visto che un professionista in una cooperativa può guadagnare anche il 20-30% in meno al mese, rispetto a un assunto direttamente. Mentre un libero professionista non è soggetto ai vincoli di orari fissati per legge e non ha ferie pagate», ammette il sindacalista.
IMMIGRATI IN CALO E ITALIANI IN FUGA
C’è chi punta il dito contro gli stranieri: ne sono arrivati troppi e visto che accettano trattamenti miseri hanno finito per abbassare le condizioni del settore.
«Questo poteva essere vero in passato, oggi le condizioni al limite sono purtroppo accettate da tutti», osserva ancora il responsabile Nursind. In effetti, dal picco di 38.000 infermieri stranieri registrato nel 2012, oggi ne risultano attivi 27.300 (17.200 comunitari e 10.100 extra Ue).
La percezione dei pazienti è diversa, perché se gli stranieri sono diminuiti sul totale dei servizi (ospedali, assistenza territoriale, studi medici), negli ultimi 10 anni sono cresciuti leggermente nelle corsie degli ospedali, passati da 20.210 a 22.232 (+10,4%) secondo UeCoop. E in alcune Regioni la loro presenza è più concentrata, come in Lombardia (11,5% sul totale), Piemonte (14%), Lazio e FriuliVenezia Giulia (16%). Ma nella media nazionale, gli infermieri provenienti da fuori non arrivano al 7%.
«Il vero problema sono gli italiani che se ne sono andati, ormai almeno 20.000. Perché oltre confine sono molto apprezzati, mentre qui si sentono casi di infermieri pagati 5 euro lordi all’ora o assunti con il contratto del commercio», dice la presidente di Fnopi Mangiacavalli.
Secondo una comparazione dell’Ocse, il salario medio di un infermiere assunto full-time in ospedale è di 56.000 euro lordi in Olanda, 45.600 in Germania, 42.800 nel Regno Unito contro i 35.700 dell’Italia.
L’OPINIONE DEI PAZIENTI
Gli infermieri, di qualunque nazionalità siano, ricevono una buona valutazione da parte degli assistiti, secondo una recente elaborazione condotta da Censis e Fnopi. L’84,7% degli italiani (valore che sale al 91,1% negli over 65) dichiara di fidarsi di loro.
In un anno, ben 12,6 milioni di famiglie hanno richiesto almeno una prestazione infermieristica pagata di tasca propria, al di là di quanto forniva il Ssn. Con qualche stortura, però, perché il 49,8% delle persone ha dichiarato di aver pagato in nero tutta o una parte della parcella.
Quanto agli stranieri, il 72,8% del campione ha la sensazione che tra chi lavora a domicilio ce ne siano molti e, di questi, il 38,6% ritiene che il motivo sia perché costano meno, il 32,9% perché sono più flessibili e con meno pretese, il 18,9% perché è un lavoro che gli italiani non vogliono fare.
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Articolo pubblicato sul n. 42 di Starbene in edicola dal 2/10/2018