Industria ed ecosostenibilità: non è un binomio facile, soprattutto quando si parla di moda, uno dei settori che sfrutta più risorse: almeno il 20% di quelle idriche secondo l’Onu, senza contare le emissioni di anidride carbonica, seconde solo a quelle del settore Oil&Gas.
Per questo i grandi marchi, già da qualche anno, cioè da quando è aumentata la sensibilità degli acquirenti sui temi ambientali, hanno avviato progetti in chiave green. «Ma pur lavorando in questa direzione, raggiungere una vera sostenibilità della moda è molto difficile», dice Barbara Molinario, presidente dell’associazione Road to Green 2020 e direttore di Fashion News Magazine che ha fatto il punto sulle contraddizioni della moda green alla fiera Ecomondo. «Ogni abito che indossiamo, anche se prodotto in maniera poco inquinante, per essere ben pulito e stirato viene trattato con prodotti chimici che, con i successivi lavaggi, finiscono nelle falde acquifere. E questo è solo un esempio».
Petrolio & pesticidi
I grandi stilisti hanno rinunciato alle pellicce vere e agli inquinanti processi di concia, l’eco pelle è ormai sdoganata anche nel luxury. «Molte pelli e pellicce sintetiche sono però prodotte con fibre derivate dal petrolio, quindi non biodegradabili», spiega Molinario.
Spesso, poi, scegliamo capi in fibre naturali pensando sia meglio per l’ambiente, ma non è sempre vero. «Le coltivazioni di cotone sono responsabili da sole per il 24% dell’uso di insetticidi e per l’11% di pesticidi. Senza contare la chimica usata per lo sbiancamento o altre colorazioni di questo tessuto».
Fast fashion & responsabilità
Una maglietta che costa meno di un panino ha sicuramente qualcosa da nascondere nella sua catena produttiva, qualcosa che di sicuro fa male all’ambiente o ai lavoratori. Eppure, evitare il fast fashion non vuol dire mettersi in salvo: l’ultimo report Greenpeace sull’industria della moda ha dimostrato al contrario come H&M, Primark, Zara o Nike stanno facendo molto più di tanti marchi supergriffati per ridurre gli sprechi e i processi inquinanti.
Le vie d’uscita per il consumatore
Se produrre è comunque inquinante, la soluzione è ridurre le produzioni? Impossibile visto che, secondo i dati Onu, rispetto a 18 anni fa il consumatore medio acquista il 60% di abiti in più. «Comprare meno e meglio, riciclare e rimettere in circolo gli abiti smessi è l’unica via d’uscita, soprattutto per quei capi che non tramontano mai e che non ha senso acquistare ogni stagione, come il tubino nero o i jeans», consiglia Molinario.
«Per i nuovi capi bisogna scegliere quelli con un’etichetta che attesti le caratteristiche della composizione e la biocompatibilità». Nel frattempo si attende il regolamento che dia il via, entro il 2025 secondo le direttive Ue, alla raccolta differenziata dei tessuti da avviare a riciclo: oggi l’85% dei vestiti prodotti finisce in discarica e solo l’1% viene riciclato.
Infine, grande fiducia alla moda proveniente da progetti green o intelligenti. Qualche esempio? I piumini Blauer imbottiti con piume riciclate, i jeans Half Century garantiti 50 anni e le scarpe Adidas realizzate dal riciclo di rifiuti plastici raccolti in mare.
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Articolo pubblicato nel n° 4 di Starbene in edicola dall'8 gennaio 2019