Se non corriamo ai ripari, molti di noi potrebbero restare senza medico di base.
L’allarme è partito dal sindacato Fimmg (Federazione italiana medici di famiglia): sui 45mila dottori oggi in attività peseranno, infatti, i pensionamenti che, si stima nel giro di 5 anni, svuoteranno gli ambulatori.
Il 2022 sarà un anno nero, soprattutto in Campania, dove lasceranno in 1619, nel Lazio (1313), in Lombardia (1802) e in Sicilia (1396). E in un decennio, nel 2028, ne avremo 33mila in meno. Considerando che ogni anno ne entra in servizio poco più di un migliaio, saranno in sostanza dimezzati.
Molti piccoli Comuni rischiano perciò di trovarsi sguarniti, mentre nelle grandi città, dove già andare dal medico è un’impresa, sarà il collasso. Quali sono i motivi?
C’è stato un errore nella programmazione
Ogni anno le Regioni segnalano il numero di medici necessari, in base alla popolazione, e il Ministero della salute è chiamato ad autorizzare le borse di studio per “medicina generale” che formeranno i nuovi dottori (possono iscriversi i laureati in medicina già abilitati alla professione). Sono poi le Asl a distribuirli sul territorio.
«Dirigenti regionali e ministeriali si rimpallano le colpe, ma la verità è che finora hanno ragionato sul breve termine, anche per rimanere nei budget, e hanno programmato i numeri sottovalutando gli effetti delle future pensioni», spiega Silvestro Scotti, segretario generale Fimmg «Basta osservare che circa due terzi dei medici in attività hanno già 25-30 anni di anzianità alle spalle per comprendere l’emergenza».
È diventata una carriera poco attraente
Il problema, però, è che pure la vocazione inizia a vacillare. Su 8mila laureati l’anno, solo un migliaio sceglie di proseguire con la specializzazione in “medicina generale” (dove i corsi e le strutture sono gestiti dalle Regioni), mentre in 6mila optano per altre specializzazioni, gestite dalle Università.
«In effetti, è un percorso che piace sempre meno», argomenta Scotti. Un medico di base guadagna meglio rispetto a uno impiegato in ospedale o altra struttura: circa 90mila euro lordi l’anno. Ma questa è la media di chi è già in attività, per chi si sta ancora formando nel triennio post-laurea, invece, è dura.
Infatti, la legge da anni ammette una disparità di trattamento tra specializzandi: quelli di medicina generale prendono circa 11mila euro l’anno, su cui devono pagare tasse e assicurazione obbligatoria. Agli altri spetta il doppio, esentasse. E quando inizia a lavorare, un medico di base è in sostanza un libero professionista retribuito in base al numero di assistiti, che deve allestire l’ambulatorio a sue spese, non ha la tredicesima e se va in ferie paga di tasca propria il sostituto (circa 150 euro al giorno).
Insomma, si fa “bingo” conquistando un bel contratto in ospedale, in cui poi lavorare anche intramoenia (cioè in libera professione) in accordo con l’azienda ospedaliera.
Bisogna intervenire cambiando le regole
Le associazioni di categoria premono da tempo su due tasti: più investimenti e nuovi meccanismi di accesso alla professione.
«Già dal prossimo anno sarebbe auspicabile uno stanziamento di fondi per raddoppiare il numero di borse di studio per la formazione in medicina generale», interviene Filippo Anelli, presidente Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri).
Ma non si rischia la mancanza di richieste? No, se nel contempo il futuro Governo accettasse di rendere il percorso più remunerativo e flessibile.
«Si potrebbero aumentare le attività compatibili con la frequentazione del corso», continua Anelli, dal momento che uno specializzando, per arrotondare, oggi può soltanto fare brevi sostituzioni in ambulatorio o in guardia medica, solo in orario extra corso. «Ancora meglio, se i giovani al secondo anno di specializzazione, sotto la supervisione di un dottore anziano, fossero equiparati a tutti gli effetti ai medici, con la possibilità di prendere in carico 500 pazienti», suggerisce Scotti della Fimmg.
L’alternativa è assumere medici dall’estero. Ne abbiamo già 18mila provenienti da oltre confine, quasi tutti impegnati in strutture private. Un bel paradosso, visto che nel periodo 2005-2015 ben 10.104 dottori di casa nostra sono emigrati all’estero (un terzo in Gran Bretagna) attirati da stipendi più alti.
«Nessun problema ad accogliere stranieri, se indispensabile», conclude il segretario generale. «Però il medico di famiglia è una figura particolare. Specialmente nei centri minori c’è il rischio che venga accolto con diffidenza», osserva Silvestro Scotti.
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Articolo pubblicato sul n. 11 di Starbene in edicola dal 27/02/2018