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Le foreste difendono dai virus

Le ultime ricerche lo confermano: la trasmissione dei microrganismi patogeni dagli animali all’uomo avviene nelle aree dove il suolo è devastato da allevamenti intensivi e insediamenti affollati. Perché i boschi hanno un ruolo essenziale nel proteggerci dai salti di specie

Foto: iStock



Il coronavirus che ha scatenato la pandemia di Covid-19 è arrivato proprio dalla Cina? Mentre virologi e capi di stato si azzuffano ancora sulla possibile origine artificiale del virus, stanno emergendo diversi dati scientifici che dimostrano come il Paese del Dragone sia già di per sé un “focolaio naturale” di virus potenzialmente pericolosi per l’uomo.

L’ultimo studio in ordine di tempo è stato pubblicato sulla rivista Nature Food da un gruppo internazionale di ricerca guidato dal Politecnico di Milano. Gli esperti hanno individuato le regioni del mondo che presentano condizioni favorevoli alla trasmissione dei coronavirus dai pipistrelli all’uomo: la maggior parte di questi hotspot si trova proprio in Cina, in corrispondenza di quelle zone (Wuhan inclusa) dove si ha un eccessivo sfruttamento del suolo e la presenza di un numero crescente di allevamenti intensivi.


Le zone a rischio

«Lo abbiamo scoperto grazie ai dati satellitari ad alta risoluzione», spiega la prima autrice dello studio Maria Cristina Rulli, docente di Water and Food security al Politecnico di Milano.

«Abbiamo analizzato l’uso del suolo in una vasta regione che si estende dall’Europa occidentale fino all’Asia orientale per oltre 28 milioni di chilometri quadrati: questa è l’area in cui vive il pipistrello ferro di cavallo, noto per essere portatore di una grande varietà di coronavirus, compresi ceppi geneticamente simili a quelli che causano il Covid-19 e la Sars, ovvero la sindrome respiratoria acuta grave». Per individuare le zone in cui è maggiore il rischio di contatto tra l’animale selvatico e l’uomo, i ricercatori hanno misurato specifici indicatori ambientali come la deforestazione, la frammentazione dell’habitat, la distribuzione dei terreni agricoli, la densità degli insediamenti umani e la presenza di allevamenti intensivi. È così emerso che le aree più critiche «si concentrano soprattutto in Cina, nella parte sud-occidentale dell’India e al confine col Bangladesh: queste ultime due regioni, tra l’altro, hanno recentemente sviluppato diversi focolai di Nipah, un’altra grave malattia dovuta a un virus dei pipistrelli», ricorda Rulli.


Gli errori dell’uomo

Difficile dire se bastino queste condizioni per scatenare un’epidemia o, peggio, una pandemia di livello globale come Covid-19. «Definire le cause che innescano lo “spillover”, cioè il salto del virus dall’animale all’uomo, è estremamente complesso», ammette l’esperta del Politecnico. «Si deve verificare un allineamento di molteplici fattori che aumentano la probabilità di esposizione al virus e la suscettibilità delle persone».

Molto dipende dai comportamenti umani: basti pensare al rispetto delle norme igieniche nei mercati dove si vendono animali vivi. Contano i fattori epidemiologici, come la presenza o l’assenza nella popolazione di particolari anticorpi che rendono più o meno vulnerabili al contagio. A questi elementi, poi, si sommano i fattori ambientali.

«Se distruggiamo gli ecosistemi e perdiamo biodiversità, aiutiamo le specie animali più forti a prendere il sopravvento e a diventare più numerose, come è accaduto con alcune famiglie di pipistrelli», osserva Maria Cristina Rulli. «Se poi frammentiamo il loro habitat, interrompendone la continuità con terreni agricoli e insediamenti, ecco che aumenta la probabilità di incontro con l’uomo».

Anche gli allevamenti intensivi sono degli “osservati speciali”, «perché oltre a richiedere la costante presenza di operatori umani accanto al bestiame, determinano condizioni che riducono le difese immunitarie degli animali, rendendoli più proni alle infezioni: in passato abbiamo già visto come polli e maiali possano diventare serbatoi di virus anche pericolosi».

L’aviaria e l’influenza suina ci hanno toccato da vicino, ma non possiamo dimenticare anche la Mers dei cammelli e l’Ebola dei pipistrelli, solo per citare alcuni esempi di zoonosi (cioè malattie trasmesse dagli animali) che in anni recenti hanno fatto notizia sui giornali di mezzo mondo. Secondo l’esperta, «per evitare che si ripetano simili epidemie, dobbiamo potenziare la sorveglianza nelle zone a rischio e aumentare la resilienza agli spillover con politiche mirate alla sostenibilità, perché la salute degli esseri umani è strettamente connessa alla salute dell’ambiente e degli animali».

Questa visione circolare ha ispirato un nuovo concetto di “salute unica”, “One Health”, sempre più sostenuto dalla comunità scientifica mondiale. A maggio è stato perfino costituito un comitato di esperti di alto livello (One Health High-Level Panel) per supportare le grandi organizzazioni internazionali come l’Oms e la Fao nello sviluppo di un piano d’azione globale a lungo termine che scongiuri nuove pandemie.


L’insegnamento del Covid

Tra i pionieri di questa rivoluzione c’è anche Ilaria Capua, la virologa italiana celebre in tutto il mondo per il suo impegno nella lotta all’aviaria, che negli Stati Uniti dirige dal 2016 il Centro d’eccellenza One Health dell’Università della Florida. «Se guardiamo al passato, alla peste nera, all’influenza spagnola, ma anche all’HIV, vediamo che molte malattie ci sono arrivate dagli animali, perché anche noi non siamo altro che animali», ha spiegato nella lectio magistralis che ha recentemente tenuto a Barcellona in occasione della consegna del premio “Barcelona Hypatia European Science Prize”, assegnatole dalla città spagnola e da Academia Europaea-Barcelona Knowledge Hub.

«Come tutte le pandemie, anche il Covid è un evento trasformativo, che segna un prima e un dopo. Finora lo abbiamo visto come una nuvola minacciosa capace di scatenare tempeste terrificanti, ma può nascondere un arcobaleno: abbiamo infatti realizzato che siamo parte di un sistema e dobbiamo rispettarlo e renderlo sostenibile, non distruggerlo».


Ognuno deve fare la sua parte

Ma cosa possiamo fare di concreto come singoli cittadini? Molto, a giudicare dalla “Guida pratica per curare il Pianeta” pubblicata dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep). Secondo gli esperti, possiamo contribuire al cambiamento partendo da gesti semplici, come prenderci cura del nostro balcone o del giardino di casa, degli spazi verdi delle scuole e delle aziende: l’importante è coinvolgere quante più persone possibile, per dare vita a un movimento di massa per il ripristino dei micro-ecosistemi.

I più volenterosi possono alzare l’asticella e impegnarsi per il recupero e la manutenzione del verde negli spazi pubblici come i parchi cittadini oppure lungo le strade e le ferrovie, magari organizzando iniziative, campagne di reclutamento e raccolte fondi. Il passo successivo è battersi per migliorare la sostenibilità delle città in cui viviamo, attraverso il potenziamento dei trasporti pubblici, il recupero delle aree contaminate o in disuso e l’inclusione di aree verdi nei nuovi contesti abitativi.


La spesa consapevole

L’impegno green si traduce anche in scelte consapevoli quando facciamo la spesa. L’Unep consiglia di optare per servizi e prodotti che abbiano una eco-etichetta credibile, privilegiando le aziende che usano materiali riciclabili, riducono il packaging e rispettano i lavoratori e l’ambiente. L’ideale sarebbe acquistare da produttori locali per ridurre le emissioni inquinanti dovute al trasporto e supportare la coltura di prodotti adatti all’ecosistema della regione in cui viviamo.


Il problema della frammentazione

Il rischio di nuove epidemie non dipende solo da quanta foresta viene distrutta, ma anche dal modo in cui il disboscamento ne ridisegna i confini. A contare, infatti, è soprattutto la “frammentazione” dell’habitat naturale: i primi a dimostrarlo sono stati i ricercatori del Politecnico di Milano. Il loro studio, pubblicato su “Scientific Reports”, ha valutato la copertura forestale nell’Africa centrale e occidentale. Dai risultati è emerso che esiste un nesso evidente tra l’insorgenza di Ebola e lo sfruttamento del suolo: i siti più a rischio sono quelli con una maggiore densità di popolazione e frammentazione della foresta.


Il progetto weTree in Italia

Per dare nuovo “respiro” al mondo post-pandemia nasce weTree, un nuovo progetto che ha l’obiettivo di realizzare aree verdi nelle città italiane e intitolarle a donne che si sono distinte per l’impegno civile a favore della comunità, della scienza o della cultura. Milano, Torino, Palermo e Perugia hanno già sposato l’iniziativa, promossa da Ilaria Borletti Buitoni (vice presidente FAI) insieme alla virologa Ilaria Capua e a Maria Lodovica Gullino, direttore del centro Agrinnova dell’Università di Torino. Tante le iniziative messe in campo.


A Milano

il Vivaio Bicocca ospiterà il Bosco delle Stem, un’area di forestazione urbana funzionale con un percorso verde dedicato alle discipline scientifico-tecnologiche. Quest’isola ecologica nel contesto urbano aiuterà a migliorare la qualità dell’aria, la biodiversità vegetale e il benessere animale, in particolare degli uccelli e degli insetti impollinatori.


A Perugia

si sta preparando un progetto articolato che avrà come simbolo il recupero di tutta l’area verde davanti al Tempio di Sant’Angelo, con la piantumazione di cinque cipressi d’alto fusto e la loro manutenzione per cinque anni: un regalo dell’Associazione weTree dedicato alla prima pediatra donna della città, Vincenza Losito Baldasserini, che negli anni ha dimostrato uno straordinario impegno civile per la sua comunità.


A Palermo

La città dedicherà all’architetto Rosanna Pirajno una nuova area dell’Orto Botanico, con piante tipiche del clima mediterraneo presenti su scala planetaria, come la costa occidentale degli Stati Uniti, il distretto centrale del Cile e le zone mediterranee del sud-est e sud-ovest australiano.


A Torino

nello spazio verde di Palazzo Nuovo, nascerà il “Bosco degli altri” intitolato a Lia Varesio, fondatrice nel 1979 dell’associazione Bartolomeo & C. a favore dei senza fissa dimora, poi insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica per il suo impegno sociale.



Gli animali dello “spillover”

Il salto di specie (spillover) è un processo per cui un microrganismo patogeno negli animali evolve e diventa in grado di infettare, riprodursi e trasmettersi all’interno della specie umana. Ecco tre esempi di animali da cui ha avuto origine il salto di specie:

• pipistrello;
• cammello;
• scimmia.




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Articolo pubblicato sul numero n° 8 di Starbene in edicola dal 13 luglio 2021

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