Una ventitreenne di Tarragona (Spagna), fresca di laurea in ingegneria biomedica, ha inventato un apparecchio per la diagnosi fai-da-te precoce di tumore al seno. Una “scatoletta”, ribattezzata Blue Box e grande quanto una radiolina, in grado di analizzare in tempo reale alcuni metaboliti presenti in un campione di urina, che potrebbero essere la spia di un iniziale carcinoma mammario.
L'apparecchio funziona grazie a un algoritmo di intelligenza artificiale, che “capta” e analizza le microtracce di metaboliti ormonali specifici, trasmettendo i risultati al data-base. Dalla loro elaborazione, scaturisce una diagnosi (o quanto meno un “alert” ), che dovrebbe indurre la donna a consultare un centro di senologia.
L'ingegnosa blue box, per la quale la giovanissima Judith Girò Benet si è aggiudicata il titolo di vincitrice del premio internazionale “James Dyson Award 2020”, ha però suscitato non poche perplessità nellla comunità scientifica internazionale, perché allo stato attuale non esistono parametri, rilevabili nelle urine, attendibili circa la loro predittività di un tumore al seno.
«Andiamoci piano con queste news trionfalistiche», avverte la professoressa Adriana Bonifacino, responsabile dell'unità di senologia dell'Ospedale Sant'Andrea di Roma. “Lungi dal criticare il lavoro dei giovani ricercatori in campo oncologico, il rapporto tra E2 (estrone 2) ed E16 (estrone 16) analizzato dal nuovo apparecchio è solo indice del metabolismo ormonale e non ha un valore diagnostico né predittivo sul carcinoma mammario. Spacciare dei metaboliti ormonali, che non hanno ricevuto alcuna validazione scientifica, per parametri utilizzati nella pratica clinica non è eticamente corretto. Perché gli unici biomarker attendibili (e neppure al cento per cento) sono quelli analizzati sul sangue e controllati periodicamente quando una donna è già stata operata di tumore. Anche in questo caso, non predicono la malattia e non servono per la diagnosi precoce ma è bene monitorarli durante i periodici controlli cui la donna operata al seno si sottopone”.
Tunore al seno: come si arriva a una diagnosi certa
I marker tumorali, cioè molecole-spia, che possono darci qualche indicazione utile nel follow-up oncologico, sono due: il CA15-3 e il CEA. Si misurano appunto, su un prelievo di sangue, secondo una programma individuale a discrezione del senologo. «Ci tengo, inoltre, a rimarcare che i marker tumorali presentano dei limiti», prosegue la professoressa Bonifacino. «A volte si alzano non tanto per la presenza di recidive o metastasi, quanto perché la paziente ha fumato troppe sigarette o ha dei fatti infiammatori passeggeri che non c'entrano nulla con il tumore. Viceversa, nella mia esperienza, ho riscontrato dei casi in cui i marker non aumentavano neanche in presenza di metastasi. Solo il senologo-oncologo, comunque, sa leggere e interpretare questi valori all'interno del singolo quadro clinico, insieme all'esito degli altri esami. Affidare la delicata questione dei biomarkers a una donna, che ne fa un uso domestico grazie a una metodica non validata scientificamente, mi sembra una manovra azzardata, pericolosa e fuorviante. Atteniamoci, quindi, sempre e solo alla medicina con un’evidenza scientifica».
Nel comunicato sul Blue Box diramato sui social si fa inoltre accenno al fatto che questi innovativi strumenti di diagnosi “fai da te” non sono per nulla invasivi, mentre la mammografia lo è, e proprio per questo viene evitata da una donna su tre. «Attenzione a dare questi messaggi», avverte ancora Adriana Bonifacino. «La mammografia non è per nulla un esame invasivo e doloroso. È vero che il seno viene un po' compresso dai due piatti del mammografo, ma il fastidio è minimo e di breve durata. Inoltre, molte donne pensano che il seno venga sottoposto ad altissime dosi di radiazioni, ma anche questo è errato. Il rischio “overdose” di radiazioni valeva per le vecchie mammografie analogiche, non per quelle digitali introdotte in Italia da oltre 25 anni. Anche la tomosintesi, che rappresenta l'evoluzione della mammografia digitale e consente di ricostruire la mammella in 3D, si basa sul principio del low dose: bassissime dosi di raggi X, uguali se non inferiori a quelle della mammografia digitale diretta. La consiglio vivamente perché con poche scansioni (obliqua, assiale, medio-laterale, ecc), che il radiologo decide di fare al momento in base a ciò che desidera studiare approfonditamente, si riesce a ottenere una perfetta immagine tridimensionale della struttura ghiandolare».
Oltre alla tomosintesi, un altro esame di screening irrinunciabile è l'ecografia mammaria ad alta definizione, priva del tutto di invasività perché utilizza gli ultrasuoni. Ulteriori mezzi di diagnosi che solo il senologo può consigliare, qualora li ritenga utili o necessari, sono la RMN (risonanza magnetica nucleare) con mezzo di contrasto, esame che sfrutta un campo magnetico per visualizzare bene la mammella da un'altra prospettiva, e la CESM (contrast-enanced spectral mammography), un innovativo tipo di mammografia che impiega anch’esso il mezzo di contrasto. «La RMN con contrasto fornisce senz'altro un valore aggiunto alla diagnosi. Se, per esempio, il liquido di contrasto viene assorbito avidamente da un nodulino (il cosidetto enhancement, tipico delle neoformazioni tumorali), il sospetto si fa più stringente.
Ma neppure la RMN consente una diagnosi definitiva e completa. Per avere la certezza matematica che si tratti di un tumore occorre sottoporsi alla procedura-standard dell’agoaspirato, o della biopsia, metodiche mininvasive che prevedono il prelievo di un campione di cellule o di tessuto per poterlo analizzare».
I passaggi, quindi, che consentono di approdare a una diagnosi certa di carcinoma mammario sono tanti, ed è impossibile semplificarli con un test di autoanalisi, almeno alle conoscenze attuali. Lasciamo il lavoro agli specialisti e affidiamoci sempre a centri di senologia qualificati che, per fortuna, in Italia non mancano.
Il calendario dei controlli per prevenire il tuomore al seno
Il SSN prevede una mammografia gratuita ogni due anni, dai 50 ai 69 anni. Ma per molti esperti ciò che “passa” la Asl non è sufficiente.
«Ho accettato di buon grado il ruolo di coordinatrice di un gruppo di lavoro attivo presso il Ministero della Salute, che ha l'obiettivo di indurre lo stesso Ministero a promuovere delle nuove “linee di indirizzo” sulle fasce di età da sottoporre allo screening mammografico. Questo gruppo, formato da esponenti di diverse società scientifiche quali Aiom (Associazione italiana oncologia medica), Sirm (Società italiana di Radiologia Medica ed Interventistica) e Ons (Osservatorio Nazionale Screening), insieme a numerose associazioni di pazienti, si prefigge che venga offerto a tutte le donne italiane lo screening mammario già a partire dai 45 anni e fino ai 74 anni. Si dovrebbe, quindi, comprendere una fascia d'utenza più ampia, come già avviene in alcune regioni, Emilia Romagna e Toscana in testa, in cui la “lettera” dell'Asl che invita a fare la mammografia arriva a 45 anni, non a 50», spiega la professoressa Adriana Bonifacino.
Dai 45 ai 50 anni occorre fare un check all'anno, mentre dopo è riduttiva la logica dei due anni uguale per tutti. Bisognerebbe stabilire la cadenza dei controlli in base ai fattori di rischio: se una donna ha una predisposizione familiare, è in marcato sovrappeso e conduce una vita sedentaria, ha fatto terapie ormonali prolungate, oppure ha il diabete o la sindrome metabolica dovrebbe proseguire sul binario di un programma di screening personalizzato.
articolo pubblicato il 3 dicembre 2020
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