Da febbraio 2018 i pacchi di pasta e di riso in commercio nel nostro Paese riporteranno in etichetta l’origine della materia prima. Una mossa del governo, non imposta dall’Ue, che punta a risollevare i prodotti al 100% made in Italy. Novità accolta con favore da Coldiretti, Confagricoltura e associazioni dei consumatori, che non manca di ricevere critiche.
Sulle etichette verrà infatti indicato sia il Paese di provenienza dei chicchi, sia il luogo in cui sono stati macinati. Ma se il grano duro è coltivato almeno per il 50% in una sola Nazione, ad esempio la nostra, basterà scrivere: «Italia e altri Paesi Ue e/o non Ue”. Dicitura vaga che, secondo l’Aidepi (Associazione dell’industria del dolce e della pasta) «invece di aiutare il consumatore finisce col confonderlo, perché l’origine, da sola, non è sinonimo di qualità».
Le fasi di una battaglia
Tra agricoltori e pastai italiani è scoppiata la guerra del grano duro. «Ne compriamo troppo all’estero», è stata la denuncia di Coldiretti. «I nostri coltivatori sono strozzati, devono vendere sotto costo e la salute dei consumatori è in pericolo», dice l’associazione. Nel mirino sono finiti soprattutto i chicchi provenienti dal Canada, che rappresentano il 30,4% di quelli importati (seguono gli Stati Uniti con il 14,5%, il Kazakistan con il 13,3% e la Francia con il 12%).
«L’Italia è il primo produttore mondiale di spaghetti & Co. e la materia prima locale non basta, ecco perché ne compriamo circa un terzo del fabbisogno all’estero. E non certo per risparmiare, visto che la paghiamo il 10-15% in più», ribatte Riccardo Felicetti, presidente di Aidepi.
Il grano prodotto in Italia non è sufficiente
Dai nostri campi arrivano ogni anno 4 milioni di tonnellate di grano, a fronte di 5,7 milioni di cui necessita l’industria.
Però ne esportiamo 400 mil tonnellate. E se cominciassimo con l’usare tutto quello che produciamo? «Impossibile: per poter diventare pasta i chicchi devono avere precise caratteristiche nutrizionali, fissate per legge: almeno il 10,5% di proteine e non più del 12,5% di umidità», dicono dall’Aidepi.
«In effetti, i nostri agricoltori quasi tutti di piccole dimensioni, sono più esposti a variabili, come il clima, che incidono su quantità e qualità del raccolto, mentre le coltivazioni su vasta scala del Nord America riescono a fornire un prodotto abbondante e dalle caratteristiche “standard”», spiega Paola Migliorini, agronomo. C’è poi il discorso dei diserbanti.
Pericolo glifosato per il grano che arriva dall'estero
Per Coldiretti il grano canadese è a rischio glifosato, che l’Oms classifica come “probabile cancerogeno per l’uomo”. «È il pesticida più diffuso al mondo, utilizzato in abbondanza anche in Italia e in Europa. Da noi, però, è registrato solo come erbicida e un mese prima del raccolto il suo impiego viene sospeso.
In Usa e Canada, al contrario, è addirittura ammesso come acceleratore della maturazione, da spruzzare direttamente sul grano», aggiunge l’esperta. La protesta della Coldiretti ha avuto un effetto politico: il Senato ha deciso a sorpresa di rinviare la ratifica da parte dell’Italia del Ceta, accordo di libero scambio Ue-Canada che ha abbattuto i reciproci dazi su import-export. Per il momento è in vigore in via provvisoria, ma gli agricoltori sperano che venga abrogato.
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Articolo pubblicato sul n. 43 di Starbene, in edicola dal 10 ottobre 2017