Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune che può manifestarsi all’improvviso, soprattutto durante l’infanzia o l’adolescenza, ma anche – seppure più raramente – in età adulta. Ritardarne l’esordio clinico nei soggetti ad alto rischio è sempre stato uno dei grandi obiettivi della scienza, che oggi sembra finalmente avere armi efficaci nel suo arsenale: si tratta degli anticorpi monoclonali, tra cui il teplizumab, che affrontano l’autoimmunità alla base della malattia e prevengono la perdita di funzionalità delle cellule beta del pancreas.
L’argomento è stato oggetto di un apposito simposio al 30° Congresso nazionale della Società italiana di diabetologia (Sid), che si è svolto a Rimini dal 23 al 26 ottobre.
Diabete di tipo 1, ci sono novità
«Da oltre trent’anni si stanno cercando terapie alternative all’utilizzo dell’insulina, che ad oggi resta l’unico trattamento disponibile per il diabete di tipo 1», commenta la professoressa Raffaella Buzzetti, neo presidente della Società italiana di diabetologia, professore ordinario di Endocrinologia e responsabile dell’Unità di Diabetologia del Policlinico Umberto I di Roma.
«Fino a qualche tempo fa, nonostante le numerose sperimentazioni cliniche e gli investimenti milionari a favore della ricerca, non si era mai arrivati all’approvazione di nuovi farmaci, mentre il teplizumab ha acceso una speranza».
Cos’è il teplizumab
Il teplizumab è un anticorpo monoclonale che agisce bloccando i linfociti T, speciali globuli bianchi che in condizioni di normalità hanno un particolare talento: sanno riconoscere virus, batteri, parassiti e cellule anormali, come quelle tumorali, contro cui mettono in atto una strategia di attacco e distruzione.
«Nel diabete di tipo 1, i linfociti T rivolgono erroneamente la loro azione contro le cellule beta del pancreas, scambiandole per agenti nemici e distruggendole», riferisce la professoressa Buzzetti.
Il processo di distruzione può durare diverso tempo, in alcuni casi pochi mesi, in altri casi molti anni: quando il numero di cellule beta diventa insufficiente per garantire la giusta produzione di insulina, compare il diabete.
«Il teplizumab blocca questo processo e ritarda la comparsa della malattia», evidenzia Buzzetti. «Attualmente, nel mondo, ci sono tante molecole in sperimentazione che agiscono a vari livelli della risposta immunitaria, quella che si altera nei soggetti con diabete di tipo 1 e che determina la patogenesi della malattia».
Quando si può usare il teplizumab
La Food and Drug Administration, ovvero l’agenzia federale americana preposta alla sicurezza dei farmaci, ha approvato a fine 2022 l’utilizzo del teplizumab nei soggetti con più di 8 anni che abbiano una predisposizione al diabete di tipo 1 (lo screening deve aver evidenziato due o più autoanticorpi nel sangue) e una condizione di alterato metabolismo e ridotta tolleranza agli zuccheri (disglicemia), caratterizzata da uno fra alcuni parametri ben definiti (una glicemia a digiuno uguale o superiore a 100 mg/dL e inferiore a 126 mg/dL; una glicemia uguale o superiore a 140 mg/dL e inferiore a 200 mg/dL a due ore dopo un test da carico orale di zucchero).
«In attesa dell’approvazione da parte dell’Agenzia europea per i medicinali e dell’Agenzia italiana del farmaco, al momento nel nostro Paese si può ricorrere al teplizumab solo per un uso compassionevole, cioè in quelle persone ad elevato rischio di ammalarsi di diabete di tipo 1».
Le prospettive per il futuro
Con la legge n. 130 del 15 settembre 2023, l’Italia è stato il primo Paese al mondo a introdurre lo screening sull’intera popolazione pediatrica (bambini e adolescenti fra 1 e 17 anni) per rilevare la presenza nel sangue degli auto-anticorpi coinvolti nell’autoimmunità del diabete, che aumentano fino all’80% la probabilità di ammalarsi nell’arco dei cinque anni successivi.
«Farmaci come il teplizumab sono utili proprio in quella fase, perché non rappresentano una cura, ma una forma di prevenzione», tiene a sottolineare l’esperta. «Stando ai dati disponibili, il teplizumab è in grado di ritardare la comparsa della malattia fino a tre anni, ma l’auspicio è che si possa ulteriormente dilatare questo spazio temporale».
L’ottimismo degli esperti
Nel frattempo, la ricerca guarda avanti: diversi studi si concentrano sulla possibilità di modificare la risposta del sistema immunitario, cercando di bloccare l’attacco autoimmune alle cellule beta. «Ad esempio, si sperimentano terapie con altri anticorpi monoclonali, terapie basate sulla protezione della beta-cellula e terapie di combinazione, che facciano cioè uso di molecole con target differenti e complementari», illustra la professoressa Buzzetti.
Ma la vera chimera sta nella messa a punto di trattamenti sempre più personalizzati: «In futuro, con una migliore comprensione dei meccanismi immunitari coinvolti nel diabete di tipo 1, ci sarà probabilmente una maggiore personalizzazione delle terapie, con trattamenti adattati ai diversi stadi della malattia o ai profili immunologici individuali. Ciò potrebbe consentire una terapia più efficace per prevenire o rallentare la progressione della malattia», conclude l’esperta.
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