Ormai è emergenza sanitaria: molti batteri che un tempo venivano spiazzati dagli antibiotici, oggi sono sotto stretta sorveglianza perché insensibili alle molecole che dovrebbero annientarli.
Stando agli ultimi dati dell’Oms, sono ben 500mila i casi di infezioni dovute alla resistenza a questi farmaci, registrati in 22 paesi del mondo. Colpa dell’abuso: vengono assunti impropriamente, a dosaggi inadeguati o per cure troppo brevi, nella convinzione che possano guarire qualsiasi malattia in tempi record. Complici questi errori, alcuni ceppi batterici hanno messo in atto contromisure biologiche, come modificazioni genetiche o adattamenti biochimici, che li hanno resi invincibili.
Ma se, da un lato, i medici hanno lanciato l’allarme per un uso corretto, mirato e controllato, dall’altro molti, tra i pazienti, temono che questi farmaci preziosi non vengano prescritti nemmeno quando servono.
Per fare chiarezza abbiamo rivolto tutti i dubbi più comuni al dottor Antonio Clavenna, farmacologo dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano.
I medici evitano di prescriverli in caso di influenza per non renderli inefficaci?
«No, non li danno perché l’influenza è causata da virus, microrganismi su cui gli antibiotici non hanno alcun effetto: non li uccidono e non ne rallentano la crescita. Questi farmaci possono essere prescritti in seconda battuta se, approfittando dell’abbassamento delle difese immunitarie indotto dall’aggressione virale, i batteri riescono ad entrare in azione, complicando l’influenza con un’infezione delle vie respiratorie, come una sinusite o addirittura una polmonite, oppure un’otite. Malattie per le quali questi farmaci sono la scelta ideale».
In presenza di un’aggressione batterica sono indispensabili?
«Non è detto. Alcune infezioni come una tonsillite con placche, possono risolversi da sole: il medico può decidere di temporeggiare un paio di giorni prima di prescriverli, per vedere se il sistema immunitario ha la capacità di garantire la guarigione, evitando di ricorrere subito ai farmaci. Ok all’antibiotico sin dai primi sintomi, invece, quando l’organismo non ha gli strumenti sufficienti per debellare i batteri (come per una polmonite o un’infezione delle vie urinarie), o c’è il rischio che l’infiammazione si estenda alle zone vicine, come un ascesso dentale.
Bisogna sempre assumerli per almeno una settimana?
«Non sempre: la durata media di una cura è di 5-7 giorni, ma può protrarsi sino a 10 o addirittura a 2-3 settimane, come nel caso di una polmonite. Occorre perciò attenersi a quanto indicato dal medico perché il tempo di cura è subordinato sia al tipo di infezione sia alla molecola prescelta. Oggi, per esempio, ne esiste addirittura in commercio un tipo (l’azitromicina) la cui azione dura più a lungo nell’organismo, tanto che la cura è ridotta a soli 3 giorni».
Chi interrompe una cura prima del tempo, rischia di non avere più benefici da quell’antibiotico?
«Potrebbe: si facilitano le ricadute e quindi può comparire la necessità di dover nuovamente iniziare un ciclo, utilizzando però un tipo diverso di antibiotico perché il primo è diventato ormai inefficace. Oppure, i sintomi scompaiono ugualmente, ma senza saperlo si ospita un batterio ormai non più sensibile che si passa ad altri (con uno starnuto o un colpo di tosse, per esempio) e che non risponde più alle molecole utilizzate per tempi troppo brevi. Gli stessi rischi, seppur molto bassi, sono in agguato anche se ci si dimentica una dose e la si salta».
Quindi se ci si dimentica una dose, che fare per non correre rischi?
«Prendere la compressa non appena ci si accorge della dimenticanza e far slittare quella successiva di un’ora rispetto all’intervallo indicato dal bugiardino. Se, per esempio, la posologia prevede una pastiglia ogni 12 ore (alle 8 del mattino e alle 8 della sera) e se ne assume una con 3 ore di ritardo (per esempio alle 11) si può prendere quella successiva alle 21-21,30. Orario che, da quel momento, diventa il nuovo punto di riferimento per conteggiare le ore di intervallo. Vietato, invece, pensare di compensare la dose dimenticata, e pareggiare così i conti, assumendo 2 compresse in un’unica soluzione. Si rischia solo un inutile sovradosaggio che potrebbe dare il via a effetti collaterali indesiderati».
Se la febbre non scende prendendo l’antibiotico, significa che si ha a che fare con un superbatterio?
«Non necessariamente, soprattutto se non si è ricoverati in ospedale, dove è più facile incorrere in infezioni antibioticoresistenti. Inoltre, è normale che nei primi 2-3 giorni di cura la febbre non scenda. L’antibiotico, infatti, non ha un’azione antipiretica e non abbassa la temperatura corporea. Anche se l’infezione persiste, non è il caso di pensare al peggio: quello che si sta assumendo potrebbe non essere il farmaco ideale per uccidere il batterio che ha fatto ammalare. Nel caso di dubbi, il medico può prescrivere un antibiogramma, un esame che identifica la molecola più efficace per l’infezione e, se necessario, variare la cura».
È vero che durante la terapia non serve prendere i probiotici?
«Le ultime raccomandazioni suggeriscono che i fermenti lattici possono essere utilizzati sin dall’inizio del trattamento con gli antibiotici. Non ci sono, però, indicazioni solide su quale sia l’integratore migliore. Stando agli studi ad oggi disponibili, quelli contenenti lactobacilli e bifidobatteri, con un occhio di riguardo per il Rahmnosus GG, sarebbero i migliori per il ridurre il rischio di disturbi intestinali, spesso associati all’assunzione degli antibiotici. Questi medicinali infatti aggrediscono anche i batteri “buoni” che colonizzano l’intestino, alterandone l’equilibrio, mentre il probiotico, aderendo alla parete intestinale, dà manforte al microbiota. L’efficacia dell’integratore dipende anche dal contenuto in fermenti: i dati indicano che i batteri probiotici non dovrebbero essere inferiori ai 10 miliardi, perché la quantità che riesce a sopravvivere agli acidi gastrici e a essere assorbita è pari al 40%».
C’è un orario di assunzione che garantisce una maggior efficacia?
«No, l’unica regola da seguire è quella di rispettare il più possibile l’intervallo tra una dose e l’altra. Così la concentrazione del principio attivo rimane costante nel sangue e i batteri non hanno modo di sfuggire alla sua azione e di proliferare».
Meglio assumere gli antibiotici a stomaco pieno oppure vuoto?
«Dipende dal tipo: quelli che possono dare senso di nausea o di peso gastrico, a base per esempio di amoxicillina e acido clavulanico, andrebbero assunti a stomaco pieno perché la presenza del cibo ne riduce gli effetti indesiderati. Vanno prese lontano dai pasti, invece, le tetracicline (antibiotici peraltro oggi poco usati), per non ridurne l’efficacia. Bisogna ingerirli con un’abbondante dose d’acqua: così si scongiura il rischio di possibili irritazioni per le mucose dell’esofago. Queste indicazioni sono comunque riportate nel foglietto illustrativo del farmaco. Se non sono indicate significa che è indifferente assumerlo prima o dopo mangiato».
Ci sono associazioni tra antibiotici e alimenti da evitare?
«No. Unica eccezione è il mix tra tetracicline o chinolonici con latte e derivati (come yogurt e formaggio): le molecole farmacologiche si legano al calcio dei prodotti lattiero caseari, perdendo parte dell’efficacia perché gli alimenti ne riducono l’assorbimento».
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Articolo pubblicato sul n. 10 di Starbene in edicola dal 20/02/2018