Fecondazione assistita: perché è ancora un tabù

La rivelazione dell’ex first lady Michelle Obama ha fatto il giro del mondo. Non è facile confessare di essere ricorsi alla provetta, ma è molto di aiuto a chi affronta lo stesso percorso



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«Un paio di settimane dopo il test di gravidanza ebbi un aborto spontaneo. Mi sentivo come se avessi fallito perché non sapevo quanto fossero comuni, di queste cose non se ne parla. Rimaniamo chiuse nel nostro dolore, pensando in qualche modo di essere rotte. Poi ci sono stati i trattamenti per la fertilità e alla fine ho capito che dovevamo fare una fecondazione in vitro. Era l’unica strada».

Queste parole potrebbero risuonare identiche nella voce di migliaia di donne. Ma a scriverle è Michelle Obama che in Becoming (Garzanti, 25 €), la sua autobiografia, confessa di essere ricorsa alla Pma (procreazione medicalmente assistita) per diventare mamma di Malia e Sasha.

Il racconto dell’ex first lady americana ha fatto il giro del mondo e ha squarciato il velo dell’omertà. Siamo nel 2018, eppure ammettere di aver bisogno della scienza per diventare genitori porta paura e vergogna. Infatti la famosa legge 40, che regola la fecondazione assistita, prevede un supporto psicologico che, però, spesso rimane sulla carta. Secondo la relazione annuale del Ministero della salute, solo nella metà dei centri è previsto il servizio.

Allora cerchiamo di capire questa problematica e proviamo a offrire una bussola a chi sta vivendo questa esperienza.


Un pregiudizio atavico

«Fin dagli albori della storia diventare genitori e, in particolare, diventare madre, è sempre stato considerato naturale», spiega la scrittrice Eleonora Mazzoni, che ha raccontato la sua esperienza di Pma nel libro Le difettose (Einaudi, 16 €), che ora è stato tradotto anche in Francia e ha dato vita a uno spettacolo teatrale di successo.

«Le donne sterili sono state “ripudiate” per secoli e a ogni latitudine, perché considerate malfunzionanti, inutili. Cambiare idea su una convinzione così radicata è un’impresa. Io sono una persona ottimista, di successo, solida, eppure quando mi è capitato ci ho messo mesi a confessare il problema. Il primo passo è proprio ammetterlo a se stesse: si elimina la cosa, come se non esistesse. Io ho tenuto un diario: ogni giorno mi imponevo di raccontare questa avventura perché scrivere i sentimenti li fa emergere. Solo dopo questa presa di coscienza, sono riuscita a parlarne. Non l’ho fatto con un’amica cara, ho preferito qualcuno che stesse provando il mio dolore». È per questo che diventano preziosi gruppi e associazioni».

«Consiglio alle coppie di incontrarsi e formare piccoli gruppi di supporto», spiega Stefania Galliera, psicologa e psicoterapeuta, esperta di Pma. «Scatta una specie di sintonia, un’affinità che fa cadere barriere e vergogna, non c’è timore di essere giudicati. Si sperimenta così la capacità di dire l’indicibile. Non solo: le coppie sono reduci da un paio d’anni di tentativi naturali falliti. Lo specialista viene quindi investito di una specie di potere magico e la terapia si trasforma nella bacchetta. Purtroppo non è così: bisogna considerare le possibilità di insuccesso e il confronto con chi c’è già passato sottolinea gli aspetti più duri».


Occorre definirsi e fare rete

Di pari passo si procede con il percorso medico. È la volta di esami e terapie ormonali ed ecco arrivare il senso di colpa. «Il coinvolgimento femminile è più forte», prosegue la dottoressa Galliera. «Lei si sente sbagliata e la vergogna aumenta. Quasi smette di vivere, sospende la quotidianità in attesa prima del prelievo degli ovociti e poi del test di gravidanza. Allora serve consapevolezza, fare pace con il fatto che la genitorialità non è vitale: è necessario definirsi e capire che non si ha un’identità solo grazie a un figlio.

È utile mettere a fuoco ciò che si è e rivalutare le cose importanti ottenute sul fronte professionale, privato e umano. Pensiamo alle conquiste lavorative, ai piaceri della quotidianità a due, a quanto siamo cresciute come persone». È un lavoro duro, per cui servono delle “alleate”. «Superare la vergogna di sentirsi difettose è una prova universale», sostiene Eleonora Mazzoni. «In Francia le donne sono più emancipate eppure quando presento il libro incontro ragazze e signore di ogni età ed estrazione sociale “schiacciate” dal tabù. Le sprono a fare rete, per esempio usando i social per confessare il proprio disagio: online è più facile».


Bisogna tornare un po’ bambini

La vergogna è così forte che il silenzio investe gli affetti. «A mia mamma l’ho detto dopo tempo. Pensavo che certi argomenti per lei fossero difficili da affrontare», ricorda Eleonora Mazzoni. «Ho aspettato il momento giusto, una serata insonne, senza difese e razionalità. Lei mi ha confessato di aver avuto 4 aborti prima di diventare madre e ci siamo sentite vicine. Da allora il suo supporto è stato fondamentale». Anche perché in questo percorso c’è un’altra grande nemica: la solitudine. «Per questo è importante affidarsi alla famiglia d’origine», conclude Galliera. «Quando cerchiamo di diventare genitori è giusto ritornare da chi ci ha cresciuto, sentirsi un po’ bambini e lasciarsi andare all’amore».


La testimonianza di Stefania

Stefania Tosca, ha 41 anni, vive a Milano ed è segretaria della onlus Strada per un sogno (stradaperunsognonlus.it): «Destabilizzante. È la prima parola che mi viene quando ripenso al medico che, 10 anni fa, mi ha detto che avrei dovuto ricorrere all’inseminazione per avere un figlio. Ed è stato solo l’inizio perché, tra un tentativo e l’altro, ho scoperto di soffrire di endometriosi e mi sono sottoposta a un intervento per togliere una tuba. Lì sono crollata: ho vissuto lo spettro della depressione, mi sentivo menomata, inadeguata e anche la vita di coppia è stata travolta, tanto che sono arrivata a dire a mio marito di cercarsi un’altra donna che lo rendesse padre. A quel punto lo specialista mi ha consigliato un supporto psicologico. Ovviamente a pagamento, perché l’ospedale non lo offriva. Ho iniziato un lavoro di analisi, dove mi sono liberata dai fardelli: ho imparato che la vita non si può controllare e quindi non dovevo sentirmi in colpa.

Intanto, purtroppo, collezionavo insuccessi con l’inseminazione: ogni mancata gravidanza era un lutto che mi faceva sprofondare più giù. La forza per risalire l’ho trovata su un forum dedicato al tema, dove ho conosciuto due amiche. Insieme abbiamo creato un nostro forum, poi trasformato in una onlus proprio per dare supporto pratico e psicologico. Al sesto tentativo di fecondazione ho realizzato il mio sogno e sono diventata mamma. Oggi giro l’Italia per aiutare chi ha sofferto come me, perché questa è una montagna che non si può scalare da soli».


Qui ti puoi confidare

Si chiama Parole fertili (parolefertili.it) il sito di storytelling dove chiunque stia provando ad avere un figlio può raccontare la sua storia. Il progetto è stato creato dal Center for digital health humanities dell’antropologa Cristina Cenci. Basta registrarsi per lasciare la propria esperienza, commentare, scambiarsi consigli ed emozioni. Perché dietro lo schermo di un pc si possono ammettere sentimenti spesso inconfessabili e superarli diventa più facile.


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Articolo uscito sul n. 50 di Starbene, in edicola dal 27 novembre 2018



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