Curiosità: nessuna parola italiana fa rima con “fegato”. Questa caratteristica sembra rispecchiare l’unicità di una ghiandola – la più grande del corpo umano – che svolge un ruolo importantissimo nell’equilibrio di tutto l’organismo ed è anche il solo organo viscerale in grado di rigenerarsi.
Dopo una malattia, un danno fisico o una parziale rimozione chirurgica, il fegato è capace di ricrescere, fino a tornare alla sua grandezza originaria. Purtroppo, però, anche i supereroi hanno le loro debolezze: nonostante le mille virtù, il fegato è vulnerabile e può ammalarsi per molte cause, come le epatiti virali.
Epatiti virali, queste sconosciute
In vista della Giornata Mondiale delle Epatiti, che si celebra ogni anno il 28 luglio, sono stati diffusi i dati dell’indagine demoscopica “Italiani ed epatiti” condotta da AstraRicerche per Gilead Sciences su un campione di 1.000 italiani. Quasi 1 persona su 3 (32,1%) afferma di sapere poco o niente di queste malattie. Tra coloro che dichiarano di conoscere almeno qualcosa, oltre 1 su 2 non sa esattamente come ci si può ammalare (57,3%) e 6 persone su 10 non conoscono i vari tipi di epatite, né gli effetti sulla salute o le condizioni di vita di un paziente. Solo 7 su 10 sanno che i virus possono essere causa delle epatiti, mentre meno di 3 su 10 sono informate sulle possibilità di trattamento e cura.
Il risultato dell’indagine evidenzia la necessità di un’informazione più capillare sul tema ed è per questo che riparte “Epatite C. Mettiamoci un punto”, la campagna multicanale che accende i riflettori su un problema di salute pubblica spesso silente, perché migliaia di persone convivono con il virus HCV, responsabile dell’epatite C, ma non lo sanno.
La campagna è promossa da Gilead Sciences con il patrocinio di sette associazioni di pazienti (Anlaids Sezione Lombarda ETS, Anlaids Onlus, EpaC - ETS, Associazione Milano Check Point, Cooperativa Sociale Open Group Bologna, Plus Roma, Fondazione Villa Maraini – CRI), di tre società scientifiche (AISF - Associazione Italiana Studio del Fegato, SIMG - Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie, SIMIT - Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali) e della Città Metropolitana di Milano.
Un problema silente
«L’80-85% delle infezioni da HCV tende a cronicizzare: le cellule del fegato muoiono progressivamente e vengono sostituite da tessuto cicatriziale, fibroso, che altera struttura e funzioni di questo organo così importante», commenta il professor Stefano Fagiuoli, direttore dell’Unità Complessa di Gastroenterologia, Epatologia e Trapiantologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e professore ordinario di Gastroenterologia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
L’esito finale, chiamato cirrosi, può rimanere silente per decenni: il fegato non è innervato da fibre nocicettive (quelle che trasmettono i segnali dolorosi), per cui non “fa male”, neppure quando è infiammato. Solo quando la funzione epatica è gravemente compromessa compaiono dei sintomi, generalmente conseguenza dei deficit funzionali dell’organo.
«Tra l’altro, non sapendo di essere malate, molte persone pur conducendo una vita normale possono assumere (o anche abusare) alcol, farmaci potenzialmente epatotossici, seguire una dieta poco equilibrata o adottare altri comportamenti inadeguati, che finiscono per accelerare il quadro, anticipando lo sviluppo di una malattia importante», avverte l’esperto.
Quali sono le principali cause
Il virus HCV si trasmette attraverso il contatto con sangue infetto. Se un tempo il rischio era rappresentato soprattutto dalle trasfusioni di sangue, perché fino al 1989 il virus non era conosciuto, oggi il rischio di trasmissione dell’infezione è confinato a tutte quelle procedure (come tatuaggi, piercing, agopuntura, manicure, pedicure, interventi odontoiatrici o procedure endoscopiche o chirurgiche) eseguite con strumentazioni non adeguatamente sterilizzate in ambienti poco controllati oppure “peculiari” (carceri, comunità vulnerabili, centri di assistenza per senzatetto).
«Il virus HCV può essere acquisito anche per via sessuale», evidenzia il professor Fagiuoli. «Se il rischio di trasmissione è pressoché nullo nelle coppie stabili e monogame, le probabilità aumentano in caso di rapporti sessuali occasionali (e ancor di più se “traumatici”, come quelli anali o che si avvalgono di sex toys, a causa delle potenziali lacerazioni delle mucose genitali che possono aver luogo)».
C’è poi una fetta di popolazione che potrebbe aver contratto l’infezione prima del 1989 (anno in cui fu identificato il virus HCV): «Un tempo era piuttosto comune utilizzare siringhe riutilizzabili, che venivano “bollite” per qualche minuto in un contenitore metallico», ricorda Fagiuoli. «Quel tipo di sterilizzazione, però, non era sufficiente per inattivare l’eventuale presenza del virus, per il quale è necessario l’autoclavaggio (120-130°) per 20 minuti. La grande diffusione dell’epatite C è avvenuta proprio in quegli anni».
Quali sono gli esiti
La velocità di progressione dell’epatite C è molto soggettiva, perché dipende dai “compagni di viaggio”. Per esempio, l’evoluzione verso una malattia fibrotica del fegato può avvenire nell’arco di dieci anni, o anche meno, quando concomitino l’abuso di alcol, la presenza di altre infezioni (come la sindrome da immunodeficienza acquisita, o HIV, oppure dell’epatite B, o HBV) e la sindrome metabolica.
Al contrario, in un soggetto sano, normopeso, privo di co-infezioni e che non consuma alcolici, i primi danni possono manifestarsi anche oltre 40 anni dopo il contagio.
«Al di là dell’evoluzione più o meno rapida, il costante danneggiamento di singole cellule del fegato comporta un continuo lavoro di riparazione», illustra il professor Fagiuoli. «Questo implica la deposizione di materiale cicatrizzante, in particolare fibre collagene, che unitamente a un’infiammazione localizzata, alla lunga porta alla formazione di noduli, che alterano l’architettura del fegato e la sua funzionalità».
È un po’ come se ferissimo ogni giorno una certa zona della pelle: nel tempo, i continui processi di auto-riparazione porterebbero alla formazione di una cicatrice sgradevole e voluminosa. Qualcosa di simile accade nel fegato, che diventa fibrotico, cioè piccolo, duro e meno funzionante.
Come si cura
Individuare precocemente l’infezione da HCV è fondamentale ai fini della cura. Da circa dieci anni sono disponibili farmaci antivirali ad azione diretta sul virus, somministrati per bocca, ottimamente tollerati, con alte percentuali di risposta (sopra il 95%) a seguito di brevi trattamenti (2-3 mesi).
«Grazie a queste terapie, scoprire l’epatite C nelle sue prime fasi significa preservare il fegato praticamente nella sua totalità. Scoprirla in una fase più avanzata, ma ancora pre-cirrotica, significa consentire a quel fegato di riprendere una struttura e una funzionalità quasi perfette. Scoprirla in fase conclamata, già cirrotica, vuol dire che non riusciremo a far regredire il danno, ma di certo potremo ridurre notevolmente lo sviluppo di tutte complicanze, compresa la comparsa di epatocarcinoma», tiene a sottolineare il professor Fagiuoli.
Un test può salvarci la vita
Per rispondere alla necessità espressa dall’Organizzazione mondiale della sanità di eliminare la malattia entro il 2030, il Ministero della Salute italiano ha promosso una campagna di screening gratuito per l’epatite C in tutti i soggetti nati tra il 1969 e il 1989, al fine di effettuare una diagnosi precoce e intervenire tempestivamente. La maggior parte delle Regioni ha aderito, invitando la popolazione a sottoporsi a un test semplice e rapido, noto come “pungidito”, che consiste nel prelievo di una goccia di sangue capillare per la ricerca degli anticorpi anti-HCV. Il campione di sangue viene analizzato in tempo reale e il risultato è comunicato in pochi minuti. È importante aderire.
Ma tutti gli altri? «Bisognerebbe allargare lo screening al resto della popolazione, compresa quella più anziana. Questo metterebbe al riparo da rischi anche i caregiver durante l’esecuzione di medicazioni, iniezioni o altre manovre quotidiane», riflette l’esperto. «Nel frattempo, si può richiedere la prescrizione del test al medico di base in presenza di alcune condizioni di rischio, come un’alterazione anche lieve delle transaminasi oppure una storia alle spalle di trasfusioni, di attività sessuale promiscua, di tossicodipendenza, di tatuaggi o di cure estetiche eseguite in luoghi non certificati, di una relazione o una convivenza con persone positive al virus HCV», conclude il professor Fagiuoli.
L’impegno di Gilead Sciences nella lotta alle epatiti
Dal 2011 Gilead promuove in Italia due bandi di concorso, il Fellowship Program e il Community Award Program, rivolti rispettivamente a ricercatori appartenenti a enti di ricerca e cura italiani (come ospedali e Università) e associazioni di pazienti operanti nell’area delle patologie del fegato (epatite B, epatite C, steatoepatite non alcolica), dell’HIV, delle infezioni fungine invasive, delle patologie oncologiche e oncoematologiche.
L’obiettivo è quello di selezionare e premiare progetti di natura scientifica o socio-sanitaria di eccellenza, finalizzati a migliorare la qualità di vita dei pazienti, gli esiti della malattia o a favorire il raggiungimento di obiettivi di salute pubblica. Un impegno a sostegno di ricercatrici, ricercatori e comunità di pazienti confermato anche nel 2024, con la tredicesima edizione dei bandi.