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Non tutti i mali vengono per nuocere. È un’affermazione forte se si pensa alle morti e alle tante persone ricoverate in terapia intensiva. Tuttavia, anche questa epidemia, che sta incidendo notevolmente sulla nostra quotidianità e sul “Dna emotivo”, ci sta dando diverse lezioni di vita.
Alcune, come l’importanza di non correre a intasare i Pronto Soccorso alle prime linee di febbre, vengono accolte e metabolizzate come buon comportamento anche per il futuro, altre sono destinate a cambiare solo temporaneamente le nostre abitudini.
C’è poi la gestione della paura, in tutte le sue declinazioni da Coronavirus (da quella del contagio all’ipocondria più spinta) a metterci con le spalle al muro e a costringerci a riflettere e a diventare più forti. Ne sono sicuri i due superesperti che ci accompagnano in questa analisi: Bruno Intreccialagli, psichiatra e docente della Sitcci, Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva a Roma, e Roberta Villa, laureata in medicina e chirurgia, consulente sulla comunicazione della scienza presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e di progetti UE sulle epidemie.
Teniamo a bada la paura pensando agli altri
«Angoscia, timore, diffidenza, panico: il Coronavirus sta scatenando una pluralità di emozioni che dobbiamo gestire contemporaneamente e che possiamo riassumere un po’ semplicisticamente nella parola paura», afferma Bruno Intreccialagli.
«La paura è ancora più contagiosa del virus. Non si diffonde con le goccioline di saliva o il contatto con l’altro, ma attraverso le relazioni: i movimenti, gli sguardi e, ovviamente, le parole. Per questo, la prima cosa da fare è imparare a riconoscerla. È normale averla e provarla. È importante però che, una volta individuata, possiamo modularla e imparare a conviverci. Come? Riconoscendo che siamo tutti nella stessa barca. Il vaccino più efficace alla paura è la condivisione con gli altri, il sentirsi appartenenti a una comunità, la consapevolezza di provare tutti, e insieme, gli stessi sentimenti. Pensiamo ai medici e al personale sanitario in prima linea in questo momento: dobbiamo sentirci tutti al servizio dell’altro. Prendersi cura di qualcuno, per esempio (un genitore, un figlio, un amico) ci consente di superare questa emozione, gratificandoci e rassicurandoci. Infine, possiamo imparare ad accettarla, sapendo che è un fenomeno temporaneo: in questo momento è così, ma sappiamo che l’emergenza passerà».
Siamo ancora più divisi sui vaccini
Magari avessimo il vaccino per il Coronavirus! «Sarebbe spontaneo pensarlo, perché una delle differenze fra l’influenza tradizionale e il Covid 19 è proprio l’esistenza di un vaccino protettivo», spiega Roberta Villa.
«Nel primo caso lo abbiamo, e ne approfittiamo troppo poco, nel secondo lo attendiamo, ma non lo avremo in tempo per contrastare questa epidemia (le procedure di sicurezza per la commercializzazione di un farmaco sono lunghe anche nelle emergenze, e poi occorrerebbe produrre centinaia di milioni di dosi)», spiega Roberta Villa.
«Purtroppo l’esperienza di passate pandemie, soprattutto della cosiddetta “suina”, l’influenza A(h1N1) del 2009, ci dimostra che i dubbiosi e i no-vax possono aumentare, e non diminuire, dopo queste crisi, convinti che l’allarme venga amplificato per vendere più farmaci e vaccini. Post di questo genere stanno già circolando sui social. Queste situazioni, scatenando reazioni emotive di paura e rifiuto, alimentano il complottismo, non lo mettono a tacere».
Non lavoriamo se non stiamo bene
«Una cosa che stiamo gestendo bene in queste settimane è il modo di lavorare. Abbiamo capito che non bisogna sentirsi eroi quando ci si riempie di farmaci per “soffocare” i sintomi dei vari malanni stagionali e andare comunque in ufficio. Un po’ per rispetto nei confronti degli altri, un po’ per osservare le disposizioni delle aziende e delle autorità, un po’ per la paura del contagio abbiamo capito che si può e si deve stare a casa se non si sta bene», dice Villa.
Riscopriamo il valore della solitudine
«Una delle indicazioni più importanti date dal Ministero della Salute è quella di diradare i contatti sociali. Non è facile: stare da soli è una condizione a cui non siamo abituati. Anzi: viviamo immersi in un flusso continuo di contatti “forzati” (whatsapp, telefonate, mail) e informazioni (la stanno chiamando “infodemia”, un’epidemia di notizie che circola senza controllo, soprattutto su Internet) e che spesso dà indicazioni confuse e contraddittorie», afferma Bruno Intreccialagli.
«Questo genera ovviamente angoscia, e spesso ci fa sentire ancora più soli. Un suggerimento utile in momenti del genere può essere quello di non collegarsi ossessivamente a Facebook o accendere continuamente la tv, o la radio. Possiamo darci una regola: una volta al mattino e una alla sera. E nel resto del tempo cercare di riscoprire il piacere di stare con noi stessi, dedicandoci alle attività che ci fanno stare bene. Cucinare, leggere, passeggiare in un parco, ascoltare musica, uscire con il cane, scrivere, dipingere: la serenità arriva da piccole azioni quotidiane. E sono tutti modi efficaci di trasformare le difficoltà in risorse creative, che ci danno soddisfazione e nutrimento», continua Bruno Intreccialagli.
Stiamo rivalutando il nostro Ssn
«Se non avessimo avuto un Sistema sanitario efficiente e capillare come il nostro saremmo davvero nei guai e il contagio dilagherebbe molto di più, senza contare le complicazioni e i decessi. Guai anche economici, visto che in Usa, dove la sanità pubblica è poco diffusa e ha lunghe liste d’attesa (impera quella privata e a pagamento) una persona che voleva fare il tampone si è sentita chiedere oltre 3mila dollari. Parliamo spesso delle disfunzioni del nostro Sistema sanitario, adesso ci sentiamo dei privilegiati. Giustamente», spiega Roberta Villa.
Usiamo meglio il Pronto soccorso
«Gli appelli delle autorità in questo periodo hanno funzionato e la gente non ha affollato inutilmente i Ps. Credo si sia capito che questa è la strada giusta da seguire, anche finita l’epidemia», afferma Villa.
Cerchiamo la giusta distanza emotiva
«In un momento in cui siamo costretti a rimanere in casa, la “convivenza forzata” in coppia o in famiglia può diventare una miccia per innescare conflittualità o tensioni, anche su questioni banali», continua Bruno Intreccialagli.
«Allora, questa può diventare un’occasione di schiacciare il tasto “reset” sulle relazioni disfunzionali: in pratica, una vera e propria opportunità per ritrovare uno sguardo nuovo sull’altro. Come? Creando la giusta distanza con il prossimo. L’affetto e la cura verso i nostri familiari o verso il nostro partner sono mediati dal riconoscimento delle esigenze dell’altro. Come in uno spazio fisico, anche in quello relazionale ognuno deve avere il suo territorio in cui muoversi. Senza fondersi né scappare dall’altro. E in questo “nuovo spazio condiviso” possiamo riscoprire il valore autentico delle parole come amore e rispetto», sottolinea lo psichiatra.
Rispettiamo di più i medici (per ora)
«Nell’era della medicina difensiva e della caccia all’errore ora guardiamo i medici un po’ come i pompieri, cioè come degli eroi in prima linea a far da barriera fra noi e la malattia. Durerà questa percezione positiva? Dipende dal virus. Se le cose andranno bene i medici saranno confermati come salvatori, altrimenti prendersela con i camici potrebbe tornare “di moda”. Non dimentichiamo che i disservizi spesso non dipendono da loro, ma dalla carenza di risorse», dice Villa.
Abbiamo imparato a lavarci le mani. Forse
«Temporaneamente. E pochi, anche in pieno Coronavirus, se le lavano davvero come dovrebbero, e cioè con l’acqua calda, bene insaponate a più riprese, completamente (unghie, spazi fra le dita e dorso compresi), per più di un minuto e ogni volta che si può, il più spesso possibile. Insomma, la pigrizia potrebbe avere la meglio nel dopo epidemia», dice la dottoressa Villa.
Se sei in quarantena
Trovarsi “reclusi” (in ospedale o a casa) per 15 giorni può essere molto difficile. Come si può affrontare al meglio questa esperienza? «Ognuno di noi si definisce in rapporto allo spazio condiviso insieme agli altri. Se quello spazio ci viene tolto e siamo deprivati del contatto fisico con familiari e amici, entriamo in sofferenza», afferma Bruno Intreccialagli, psichiatra.
«Il senso di solitudine può accentuarsi, insieme all’ansia, a stati depressivi e via dicendo. Allora, è importante farsi aiutare dal potere evocativo delle relazioni: noi esistiamo anche nella mente dell’altro, nel venire pensati. Dirsi: “Non sono solo: lì fuori ci sono il mio partner, la mia famiglia, i miei amici, i miei colleghi, che mi aspettano” ci aiuta a sopportare l’eccezionalità della situazione. Telefonate, chat, videochiamate possono essere di grande aiuto. Ma dalle nostre ricerche sappiamo che anche le immagini (per esempio le foto che abbiamo sul cellulare) attivano il ricordo, diventando un grande supporto emotivo. Infine, sappiamo che finirà: c’è un dopo. E questo è un pensiero molto rasserenante.
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Articolo pubblicato sul n. 13 di Starbene in edicola dal 10 marzo 2020