Nella colonna degli italiani ci sono troppe viti. Vengono messe anche quando non servono, magari per un mal di schiena che si potrebbe risolvere con i farmaci antidolorifici e la fisioterapia.
Negli ultimi anni si è assistito a un boom degli interventi di “blocco” della colonna, la cosiddetta artrodesi vertebrale. Nel 2010 se ne contavano poco più di 13mila ma, secondo l’ultimo annuario statistico del Ministero della salute (con i dati del 2017), sono aumentate del 136%: ben 30.735.
Proprio per questo diverse Regioni stanno cercando di vederci chiaro e alcune hanno deciso di imporre un taglio.
C’è chi ha detto basta
All’inizio dell’anno il Piemonte ha varato una stretta sui controlli, mettendo sotto esame fino al 40% delle artrodesi prescritte per valutare se fossero davvero necessarie.
La Lombardia, dal 1° agosto, ha fatto di più, tagliando i rimborsi versati dalla Regione agli ospedali per ogni prestazione. Se prima le artrodesi arrivavano spesso a 19.700 €, adesso restano in questa fascia solo alcuni casi che derivano da patologie più gravi. Altrimenti, il rimborso scende in un range fra 3.200 € e 7.600 €.
Una riduzione giusta? «La Lombardia, prima di deliberare, ha aperto un tavolo di confronto con esperti del settore. Questo taglio dovrebbe spingere a un ricorso più appropriato al trattamento», sostiene il dottor Marco Cenzato, direttore della Struttura complessa di neurochirurgia all’ospedale Niguarda di Milano e presidente della Sinch (Società italiana neurochirurgia).
Una scelta non facile
Ma quando è veramente necessaria la artrodesi? Il prerequisito fondamentale è l’instabilità, cioè la tendenza delle vertebre a scivolare.
«In alcuni casi questa condizione è palese, come a seguito di traumi e neoplasie. In altri, invece, è più difficile da interpretare, specie nelle malattie degenerative come la disco-spondilo artrosi e le deformità. Da queste complessità diagnostiche possono nascere differenti scelte chirurgiche», continua Cenzato.
In effetti, proprio la Sinch sta promuovendo degli approfondimenti riguardanti particolari casi nei quali è complicato decidere tra artrodesi e un’alternativa più semplice (la decompressione del canale vertebrale). Le difficoltà oggettive nella scelta del trattamento, però, non bastano a giustificare l’abuso di interventi.
Il ruolo dei medici e dei pazienti
«L’eccesso di operazioni è una costante della sanità in tutti i Paesi avanzati, per colpa di medici, strutture, ma anche a causa delle aspettative sempre crescenti da parte dei pazienti», ammette il dottor Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe (Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze).
«Specialisti, manager degli ospedali: in tanti hanno un tornaconto. Le cliniche private sono le più opportuniste, ma succede anche negli ospedali pubblici rimborsati a prestazione. Gli unici che sfuggono alla tentazione sono gli ospedali delle Asl retribuite a quota capitaria, cioè con un budget fisso legato alla popolazione residente, che pur aumentando il numero di interventi non riceverebbero maggiori contributi. Ma non sono esenti da colpe i pazienti, che hanno spesso aspettative irrealistiche e pretendono una medicina infallibile», puntualizza l’esperto.
«Il rimedio potrebbe essere la corretta informazione. Chi è ammalato deve insistere per conoscere benefici e rischi delle varie alternative terapeutiche, sapendo che per tante patologie il “non fare nulla” è un’opzione, quando non c’è evidenza di vantaggi concreti. Ma ciò non significa ostinarsi a chiedere sempre un secondo e un terzo parere. Questo, spesso, confonde la scelta perché il paziente tende a fidarsi dell’opinione più in linea con le proprie aspettative».
Dall’artroscopia al cesareo: quando si esagera
L’artrodesi è solo uno dei tanti interventi prescritti in eccesso. Secondo la Fondazione Gimbe, tra i più abusati c’è l’artroscopia con lavaggio della cavità articolare in chi soffre di artrosi.
In ambito cardiovascolare, l’endoarteriectomia carotidea nei pazienti asintomatici a basso rischio. Ma al top c’è il numero dei parti cesarei, in ginecologia, specialmente al Sud. Secondo l’Oms, una quota fisiologica dovrebbe essere intorno al 15% sul totale delle nascite. In Campania si arriva al 65%.
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Articolo pubblicato sul n. 1 di Starbene in edicola dal 18 dicembre 2019