"Ti voglio bene, professor Frigiola". Sono le parole di Sasha (il nome è di fantasia), romeno, 5 anni, dopo essersi ripreso da un intervento al cuore che gli ha salvato la vita. Una fatica pronunciarle per lui, così piccolo e affetto anche dalla sindrome di Down. Chissà quante volte si sarà esercitato a ripeterle, prima di riuscire a dirle in italiano. Il professor Alessandro Frigiola, primario di cardiochirurgia pediatrica IRCCS Policlinico San Donato Milanese (Milano), si commuove ancora nel ricordarlo.
È grazie a lui e all'Associazione bambini cardiopatici nel mondo, che esistono progetti come Cuori in emergenza, nato proprio in questi mesi per continuare ad arrivare in tutti quei Paesi del Medio Oriente e dell'Africa, dove è sempre più difficile prendersi cura dei piccoli cardiopatici (ogni anno nel mondo nascono 500.000 bambini affetti da cardiopatie congenite), a causa della crisi internazionale che stiamo vivendo.
Per saperne di più abbiamo intervistato proprio il professor Alessandro Frigiola e scoperto che tre dei bambini seguiti dall’Associazione saranno operati nelle prossime settimane proprio qui in Italia, al Policlinico di San Donato Milanese.
Professor Frigiola, com'è nato il progetto Cuori in emergenza?
Da vent'anni organizziamo ogni mese missioni in tutte le parti del mondo, sia formando i medici del posto, in modo che possano divenire autonomi, sia costruendo centri di cardiochirurgia pediatrica nelle aree più depresse. Oggi, però, non si tratta più solo di raccogliere fondi. Affrontare e trattare i casi di bambini in pericolo di vita è sempre più difficile per via delle guerre e del terrorismo.
Ma non possiamo e non vogliamo fermarci. Sono tanti i bambini che hanno bisogno di essere operati in tempi brevi, altrimenti non sopravvivono. Ecco, allora, che abbiamo organizzato il progetto Cuori in emergenza: quando non possiamo raggiungere i pazienti (questo vale anche nei casi in cui le strutture locali non consentono di operare oltre un certo grado di difficoltà), facciamo in modo che siano loro a venire in Italia, assieme ai genitori. Grazie alla generosità di molti sostenitori, riusciamo a coprire i costi del viaggio e dell'intervento. I primi tre bambini, uno egiziano e due senegalesi, veranno operati al Policlinico di San Donato Milanese proprio nelle prossime settimane.
Qual è la patologia cardiaca più diffusa che colpisce questi bambini?
Si tratta della tetralogia di Fallot, nota anche come morbo blu, perché chi ne soffre ha una bassa saturazione di ossigeno, al punto che le labbra e le unghie diventano nere, viola. Li chiamiamo bambini blu. Sono pazienti che si stancano facilmente, faticano a stare in piedi, dopo pochi passi tendono ad accovacciarsi. L'intervento chirurgico è l'unica soluzione per loro. Se non vengono operati al più presto, muoiono per ipossia, mancanza di ossigeno.
In che cosa consiste l'intervento?
La tetralogia di Fallot consiste in un difetto tra i due ventricoli nella parte bassa del cuore. È presente un restringimento dell'arteria polmonare, cioè del vaso che porta il sangue ai polmoni. Se l'arteria polmonare è stretta, l'ossigenazione è scarsa. L'intervento consiste nel correggere il difetto tra i due ventricoli e allargare o ricostruire la via dell'arteria polmonare.
Professor Frigiola, nel vostro lavoro non mancheranno momenti di sconforto. Ce ne racconta uno?
Sì, è vero, purtroppo capita. Quando un intervento si conclude con successo, le ali della vittoria (e di un pizzico di umana presunzione, sì) ti sollevano a due metri da terra. Ci sei riuscito, ce l'hai fatta, sei il più bravo. Ma l’imprevedibile, l’imponderabile sono nella nostra vita. Così, mentre sei lì con il cuore che sobbalza di orgoglio e la gioia che ti toglie il respiro, all'improvviso può arrivare il buio ad avvolgere tutto.
Era il 2011, ci trovavamo in Egitto, in un povero villaggio vicino al Cairo. E c'era Amir, 10 anni, con una patologia cardiaca gravissima e nessuna probabilità di sopravvivere. ll bambino non poteva essere operato nel suo paese, perché mancavano le strutture adeguate e soprattutto l'assistenza per il post operatorio. Le abbiamo provate tutte per convincere la mamma a portarlo in Italia. Per lui questa era l'ultima speranza. Lo sguardo di quella donna esile, le domande silenziose che affioravano sulla superficie liquida dei suoi occhi scuri, me li porterò dietro sempre, a ogni viaggio.
Alla fine, la mamma di Amir ha deciso che il figlio sarebbe rimasto a casa: se fosse morto in Italia, chi avrebbe sostenuto le spese per riportarlo indietro e seppellirlo vicino a lei? E allora, ci abbiamo provato: l'abbiamo operato al Cairo. L’intervento è riuscito perfettamente. Ma due giorni dopo, mentre eravamo ancora ebbri di quel successo insperato, il bambino è morto. Le sue condizioni si sono aggravate improvvisamente. E non avevamo a disposizione il farmaco giusto e urgente da somministrargli.
Prima o poi lo farò, vedrà. Tutte queste cose le racconterò in un libro.
3 maggio 2016
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