La descrivono come un’epidemia sociale, considerata la sua diffusione: solo in Italia si stima che siano più di 3 milioni le persone (nel 96% donne) colpite da disturbi dell’alimentazione (Dca). Soprattutto giovani tra i 15 e i 25 anni. Non a caso, l’anoressia è la terza più comune “malattia cronica” fra i giovani.
Ne è stata vittima anche Giulia Pezzullo, che nel 2011 è passata nell’arco di sei mesi a pesare da 58 a 34 chili. Ora è una ragazza serena, vive a Conegliano (Treviso), fa l’addestratrice di cani e la dog sitter e parla volentieri del suo passato, per dare una mano a chi sta affrontando adesso il problema.
«Quando mi chiedono come mai, a 20 anni, sono finita nel tunnel dell’anoressia fatico a rispondere, perché non c’è una motivazione precisa, ma una serie di malesseri, che si rincorrevano nella mia vita», racconta.
«Dinamiche familiari scomode, esperienze sentimentali spossanti e la completa mancanza di fiducia verso il genere maschile. Il tutto accompagnato da una bassa autostima mascherata con l’ironia e, a volte, persino con l’altezzosità».
Era “devota” alla sua malattia
È così che Giulia, in preda a una sensazione di smarrimento sulla propria individualità, inizia a nutrire una rovinosa ossessione per il corpo. Si isola socialmente, si rifugia in un universo privato fatto di diete drastiche, conteggio meticoloso delle calorie e sport praticato sino allo sfinimento.
«Andavo a dormire programmando tutta la giornata successiva, impostavo la sveglia presto per fare gli addominali e i pesi senza che nessuno se ne accorgesse», ci spiega. «Bevevo litri di acqua e tenevo d’occhio costantemente il peso stringendo indice e pollice intorno al braccio nell’attesa che arrivassero a congiungersi».
La malattia aveva scollegato Giulia dal mondo e anche da se stessa. L’anoressia era diventata per lei un’entità reale, viva, alla quale fare riferimento. Era entrata talmente in simbiosi con essa da instaurarci una vera relazione di amore e odio, senza riuscire a staccarsi.
«Per le persone insicure non è semplice interrompere una relazione anche se deleteria», dice. «Sentivo una voce dentro che mi portava a essere devota alla malattia al punto di sentirmi in colpa dopo ogni “sgarro” alimentare. Quasi in dovere di chiederle scusa. Era talmente forte il suo potere da paralizzarmi. L’anoressia ti sfinisce, ti toglie tutto. Se la assecondi arriva a sostituirsi completamente a te».
I familiari di Giulia non si sono resi subito conto di ciò che stava accadendo. Il suo ragazzo però, a un certo punto, nota il comportamento anomalo, le ossa sporgenti, e la invita a farsi aiutare.
«Carlo cercava di farmi prendere coscienza del problema anche attraverso le storie di altre ragazze ridotte pelle e ossa, ma io mi sentivo diversa da loro, negavo la malattia e mi allontanavo anche da lui innalzando muri di ostilità».
Giulia era concentrata nello sforzo di vincere la fame, e si esaltava per la sua capacità di dominare il proprio corpo. Una dinamica che alimenta l’autostima, bassissima, dell’anoressica.
È guarita guardandosi dentro
Un giorno, però, ha un mancamento, così va insieme a sua madre al Pronto soccorso di Conegliano dove la trattengono per farle recuperare un po’ di peso e le forze. Quello è il suo primo ricovero, poi ne seguono altri due presso la Casa di cura neuropsichiatrica Parco Dei Tigli, a Padova, dove riesce a guardare in faccia il suo disagio e a decidere di affrontarlo.
Con la determinazione, il supporto delle due sorelle e dei genitori, si affida con pazienza ai medici specializzati e inizia il suo cammino di risalita. «Ci ho messo quasi sei anni per guarire completamente, a volte ho avuto delle ricadute, comunque non mi sono mai arresa e ho continuato a lavorare su di me facendo molta psicoterapia. E attingendo alla mia forza di volontà per far emergere quella sana voglia di vivere che mancava. Oggi ho acquisito la consapevolezza di me stessa. Posso sostenere di avere un rapporto equilibrato con il mio corpo».
Ha aperto un blog
Un percorso lungo e faticoso. L’ha aiutata molto anche scrivere di sé e della malattia sul blog Il Filo Rosso, che poi ha trasformato in pagina Facebook.
«Si guarisce da questi disturbi quando si ha il coraggio di guardarsi dentro, di ascoltarsi, smettendo di dare importanza ai giudizi esterni, di vivere in funzione degli altri o delle cose che ci accadono», dice ancora. M
a Giulia ha avuto anche un altro alleato importante in questa fase delicata della vita. «Il mio cucciolo, Matisse, mi ha riportato dolcemente al senso di responsabilità. Prima ero sempre preoccupata della malattia, della guarigione, di come sarei diventata. Condividere il mio tempo con Matisse mi ha dato modo di riaprirmi al mondo. Ora tengo aperta la finestra che dà sul giardino rigoglioso che mi porto dentro».
Una famiglia di disturbi
«Dietro un disturbo del comportamento alimentare (come l’anoressia, la bulimia o il disturbo dell’alimentazione incontrollata), c’è sempre un malessere interiore profondo ma spesso, soprattutto i più giovani, non lo riconoscono», spiega Antonella Gaston, psicologa-psicoterapeuta dell’Ambulatorio dei disturbi della nutrizione e alimentazione presso ULSS 2 Marca Trevigiana dell’Ospedale De Gironcoli di Conegliano.
«La consapevolezza viene a mancare specialmente nella fase iniziale della malattia, quando il disagio è proiettato all’esterno (“sono gli altri che non capiscono”). Pertanto, è improbabile che la persona chieda aiuto. Solitamente decide di farlo quando, in seguito a un particolare accadimento, che può essere un crollo fisico o psichico o qualsiasi altro evento di vita anche positivo, le scatta qualcosa dentro oppure quando sente che la malattia sta davvero limitando la propria vita.
Per intervenire è fondamentale sempre aspettare che il paziente sia motivato, senza fare pressioni, poiché nessun trattamento coatto porta dei benefici. Si interviene in tal modo soltanto nei casi in cui, in presenza per esempio di un grave sottopeso, c’è pericolo di vita».
Spesso la paura di un cambiamento blocca la persona con patologia e, durante il percorso di cura, ci possono essere delle ricadute, che non devono essere vissute come fallimenti ma come parte di un percorso evolutivo.
«La collaborazione del paziente è necessaria», conclude l’esperta, «e soltanto dopo aver acquisito consapevolezza del problema si può iniziare a lavorare sulle cause e arrivare alla guarigione».
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Articolo pubblicato nel n° 13 di Starbene in edicola dal 12 marzo 2019