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Alzheimer, possibile svolta da una nuova molecola

Uno studio giapponese ha individuato un anticorpo capace di bloccare la crescita delle fibrille β-amiloidi, che sono strettamente correlate all’insorgenza della malattia

Pixabay



Un team di ricercatori giapponesi dell’Exploratory Research Center on Life and Living Systems, dell’Institute for Molecular Science e di diverse università nipponiche (tra cui la Nagoya City University, la Nagoya University e la University of Tsukuba) ha scoperto un nuovo meccanismo alla base della crescita delle fibrille β-amiloidi, strettamente correlate all’insorgenza della malattia di Alzheimer.

Cos’è la β-amiloide

Il nostro organismo contiene diverse proteine che, per interagire con le altre molecole in modo preciso, devono assumere una forma specifica e tridimensionale, come una sorta di origami. Se il ripiegamento non avviene in maniera corretta, quelle proteine diventano disfunzionali o addirittura dannose per le cellule.

«È il caso della β-amiloide, una proteina normalmente prodotta dalle cellule del nostro cervello e che ha un ruolo importante nella plasticità sinaptica», spiega la dottoressa Francesca Baglio, neurologa e ricercatrice, responsabile del Centro avanzato di diagnostica e terapia riabilitativa dell’IRCCS Fondazione Don Carlo Gnocchi a Milano.

«Qualora si ripieghi male, la proteina può assumere una forma anomala, come succede alla sua isoforma nota con la sigla Aβ-42, considerata aggressiva perché tende a formare lunghe fibrille contorte che poi diventano placche capaci di uccidere le cellule cerebrali, compromettendo la memoria e il pensiero, alterando il comportamento e aprendo la strada al declino cognitivo».


Cosa dice lo studio

Grazie alle nuove tecnologie sempre più potenti, i ricercatori giapponesi – che hanno pubblicato il loro studio sul Journal of the American Chemical Society – sono riusciti a osservare in maniera dinamica la formazione delle fibrille, come in un filmato al rallentatore.

«Ogni fibrilla si crea e cresce attraverso due sottili filamenti, detti protofilamenti, che possiamo immaginare come fili di “perline” che vengono posizionate una dopo l’altra in maniera alternata, una a destra e una a sinistra», semplifica la dottoressa Baglio. «Quando le estremità dei due fili si allineano, la crescita della fibrilla va temporaneamente in pausa, creando una finestra di opportunità per l’intervento terapeutico».

Sfruttando quel piccolo stop, i ricercatori hanno ideato un anticorpo monoclonale, chiamato 4396C, che si lega a uno dei due filamenti e blocca la deposizione di nuove “perline”.

Quali sono le prospettive

Questa scoperta è rivoluzionaria, perché potrebbe ispirare nuove terapie che vanno all’origine della malattia di Alzheimer. «Mentre gli attuali trattamenti cercano di rimuovere l’eccessivo accumulo di placche amiloidi, rallentando il declino cognitivo dovuto alla patologia, qui l’obiettivo è non permetterne la formazione», annuncia l’esperta.

«Ovviamente servirà del tempo per confermare i dati e arrivare a un farmaco utilizzabile nella pratica clinica, ma la buona notizia sta nel grande fermento intorno al settore. Se un tempo non c’era nulla per contrastare questa forma di demenza, oggi abbiamo opportunità terapeutiche che derivano da una migliore comprensione della malattia. Lo scopo è arrivare ai cosiddetti farmaci “disease-modifying”, cioè terapie che modificano il decorso della malattia e, magari, ne impediscono la comparsa».

Serve una diagnosi precoce

L’anticorpo 4396C, così come altri farmaci sotto la lente dei ricercatori, ribadiscono un concetto fondamentale: intercettare la malattia prima che sia conclamata, quando i pazienti hanno sintomi lievi o lievissimi, diventerà sempre più fondamentale per arrivare a un successo terapeutico.

«Per esempio, si sta mettendo a punto un esame del sangue che indaga i principali biomarcatori che precedono la manifestazione clinica della malattia, come la β-amiloide e la tau-iperfosforilata», annuncia l’esperta. «Al momento, questo dosaggio è possibile solamente con un esame invasivo, quello del liquor cerebrospinale, che va prelevato con una puntura a livello della colonna vertebrale lombare. Presto, potrebbe arrivare la svolta sul sangue».

Cosa possiamo fare

Nel frattempo, dobbiamo essere noi i protagonisti attivi della prevenzione, seguendo uno stile di vita che si è dimostrato capace di contrastare l’insorgenza dell’Alzheimer. L’obiettivo deve essere quello di avere una buona riserva strutturale cerebrale, che dobbiamo immaginare come il disco di un computer su cui vengono memorizzati i dati: maggiore è lo spazio a disposizione, più siamo in grado di mantenere le funzioni basilari del cervello anche nel caso in cui questo venga danneggiato in alcune parti.

«Nella pratica, questo significa seguire una dieta equilibrata, praticare una regolare attività fisica e allenare la memoria, continuando a essere curiosi», raccomanda la dottoressa Baglio. «Anche in caso di declino cognitivo lieve già manifesto, queste buone abitudini, unitamente a uno stretto controllo dei fattori di rischio cardio-cerebrovascolare, possono determinare una progressione più contenuta della malattia».

Negli ultimi anni, poi, gli scienziati hanno individuato ulteriori possibili nemici da contrastare, come l’ipoacusia: «La perdita di udito può generare isolamento familiare e sociale con tendenza alla depressione, aprendo facilmente la strada sia all’Alzheimer sia ad altri disturbi cognitivi», conclude l’esperta.


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