Si chiama Florey Dementia Index ed è uno strumento predittivo per determinare se una persona potrebbe sviluppare un declino cognitivo lieve o la malattia di Alzheimer. Ad annunciarlo è uno studio pubblicato lo scorso 8 gennaio su JAMA Network Open, che riporta i risultati di un gruppo di ricercatori del Florey Institute of Neuroscience and Mental Health di Parkville, in Australia. Utilizzando i dati di 1.665 soggetti partecipanti allo studio The Australian Imaging, Biomarker and Lifestyle e di altre 2.029 persone aderenti all’Alzheimer’s Disease Neuroimaging Initiative, gli scienziati hanno messo a punto una valutazione che sembra prevedere l’insorgenza di declino cognitivo lieve entro 2,78 anni e della malattia di Alzheimer entro 1,48 anni.
Come funziona il Florey Dementia Index
«Il Florey Dementia Index è un indice che utilizza l’età e il punteggio ottenuto a un unico test neuropsicologico, il Clinical Dementia Rating Sum of Boxes, un questionario che va a indagare i vari aspetti cognitivi individuali, come memoria, attenzione, ragionamento, calcolo, organizzazione e pianificazione», spiega la dottoressa Laura Iacovazzo, neuropsicologa al Primus Forlì Medical Center.
«Il punteggio ottenuto viene poi messo in relazione con altri fattori di rischio già noti per il decadimento cognitivo, come l’ipertensione arteriosa, l’ipoacusia non trattata, il fumo di sigaretta, la sedentarietà, l’obesità, il diabete, la scarsa istruzione, il consumo di alcol, l’inquinamento atmosferico e l’aver subito traumi cerebrali».
A quel punto, uno speciale algoritmo elabora i dati ottenuti, confrontandoli con quelli della popolazione “normale”. «Rispetto agli attuali test neuropsicologici, che già utilizziamo nella pratica clinica per arrivare a una diagnosi di demenza, qui la grande novità sta nella predittività», tiene a precisare l’esperta. «Quelli disponibili sono questionari che mettono in luce un eventuale problema già manifesto, mentre il Florey Dementia Index sembra anticipare la diagnosi di qualche anno. Adesso, bisogna aspettare che venga convalidato ed entri nella routine medica».
Uno strumento non invasivo
Dal punto di vista fisiopatologico, l’Alzheimer è caratterizzato dall’accumulo cerebrale di due proteine, la beta-amiloide o Aβ 1-42 e la tau-iperfosforilata o pTau: la prima è responsabile della formazione di minuscole ma numerose placche nel cervello in grado di danneggiare i neuroni, nei quali la proteina Tau subisce la cosiddetta fosforilazione e si aggrega compromettendone la funzione.
Si tratta di un processo che inizia diversi anni prima che compaiano i classici disturbi di memoria e in cui, progressivamente, entrano in gioco anche altre proteine, come CAP2, PTX2, SNAP25, interleuchine, GFAP, NFL. Fino a qualche anno fa, stabilire la presenza di queste sostanze era possibile solamente attraverso un’invasiva biopsia cerebrale oppure post-mortem, mediante un’autopsia del cervello, mentre oggi una vasta gamma di indagini (come la risonanza magnetica nucleare, l’esame del liquor cerebrospinale, la PET per la proteina amiloide o per la proteina Tau e la PET cerebrale con 18F-FDG) lo rende possibile già in fase di diagnosi.
«Attualmente l’unico esame che potrebbe mimare i risultati del Florey Dementia Index, anticipando la manifestazione dei sintomi, è l’analisi del liquor cerebrospinale, in cui si vanno a ricercare nel liquido che avvolge il sistema nervoso centrale quei biomarcatori che indicano il rischio di sviluppare la malattia», commenta la dottoressa Iacovazzo. «Ma si tratta di un test invasivo, che comporta sempre l’anestesia generale, mentre il nuovo indice si basa esclusivamente su metodi di raccolta dati non invasivi, bilanciando l’accuratezza predittiva con l’accessibilità».
Qual è l’importanza del Florey Dementia Index
Anticipare di qualche anno l’eventuale diagnosi di Alzheimer è senza dubbio fondamentale, perché consente di attivare tempestivamente un idoneo percorso di cura. «Un elemento comune a tutte le forme di demenza è l’esordio progressivo, perché queste malattie non si manifestano mai all’improvviso, ma vivono un’incubazione lunga anni, talvolta decenni», ammette l’esperta.
Seppure al momento non esista una terapia risolutiva, che permetta di arrestare completamente i processi di danno cerebrale, in questa ampia finestra temporale è comunque possibile adottare un programma di stimolazione cognitiva, cioè un approccio non farmacologico che sfrutta la nostra plasticità cerebrale attraverso esercizi cognitivi mirati per favorire l’uso e il mantenimento delle funzioni cognitive il più a lungo possibile.
«Inoltre, consapevole di quello che potrebbe accadere, la persona può compiere preventivamente delle scelte rispetto alla propria vita insieme alla sua famiglia. E questa non è poca cosa», conclude la dottoressa Iacovazzo.
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