Capelli sul cuscino, nel lavabo, tra i denti del pettine… Un aumento della perdita può essere normale al cambio di stagione, ma se il cuoio capelluto comincia a mostrare delle aree diradate e tondeggianti, dalle dimensioni circoscritte ( 2-3 cm di diametro) o che si allargano a macchia d’olio, significa che soffri di alopecia areata. Un problema che oggi interessa tanto gli uomini quanto le donne, specie dopo i 35 anni. La buona notizia? Per combatterla ci sono molte armi efficaci.
È TUTTA COLPA DELLO STRESS
«Il progressivo diradamento può interessare una sola area del cuoio capelluto (per esempio la sommità del capo, le tempie, la regione occipitale o laterale) oppure diverse “isole” della testa, creando il cosiddetto effetto-bambola (tante ciocche separate). Un vistoso inestetisimo che può gettare nel panico, perché sembra aprire la strada alla calvizie.
«Non è così», premette la dottoressa Daniela Orlando, medico estetico esperto in tricologia, consulente della Salutati Clinic di Milano. «A differenza dell’alopecia androgenetica, che ha un’origine ormonale, quella areata ha un solo responsabile: lo stress.
Traumi psicologici, tensioni familiari o professionali possono innescare una risposta di tipo autoimmune: i linfociti T, le nostre cellule-soldato normalmente impegnate in prima linea a ombattere i nemici esterni, si attivano contro i follicoli piliferi, intercettandoli come cellule estranee da combattere.
Un attacco senza quartiere, sferrato proprio da chi dovrebbe difenderci, che arriva a “tagliare i viveri” ai follicoli (con minor afflusso sanguigno, minore ossigeno e nutrimento) fino a soffocarli». Entrati in fase catagen, i capelli cadono copiosi, senza venire prontamente rimpiazzati da quelli in fase anagen (crescita), come avviene nel normale ciclo vitale.
LA DIETA GIOCA UN RUOLO CHIAVE
Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, terminato il periodo di stress il sistema immunitario si riequilibra da solo. I capelli cominciano a ricrescere,fino a ripopolare le aree glabre nell’arco di 6-8 settimane. In alcuni casi, però, l’alopecia areata persiste creando disagi a non finire.
Che fare, allora? «Innanzitutto occorre vedere se, stress a parte, esistono delle carenze nutrizionali tali da non apportare al bulbo pilifero tutte le sostanze necessarie alla salute del capello», rispondela dottoressa Daniela Mantovani, biologa, tricologa e naturopata a Milano.
«È importante, infatti, seguire una dieta ricca di vitamine, minerali, oligoelementi e proteine animali e vegetali, in grado di formire tutti gli amminoacidi che, come tanti mattoncini, formano la cheratina (la proteina dei capelli).
Utile è assumere per 3 mesi un integratore per bocca a base di vitamine (B1, B2, B3, B5, B6, C, A, E, D e, fondamentale, la biotina detta anche vitamina K), amminoacidi (lisina, prolina, glicina, cisteina, metionina e adenosina) e oligoelementi quali zinco, selenio, ferro, calcio, rame e manganese. Importantissimo, infine, è controllare in etichetta che l’integratore prescelto contenga anche il paba (acido para-amminobenzoico), un amminoacido costituente l’acido folico, fattore di crescita indispensabile alla vitalità delle chiome».
LE MIGLIORI CURE IN FIALE
E che dire delle fiale e lozioni anticaduta, frutto della moderna ricerca tricologica? «Premesso che alcuni attivi top sono utili per contrastare l’alopecia androgenetica ma non quella areata (è il caso dell’aminexil), le formule più innovative ed efficaci contengono un mix di ingredienti: vitamine, minerali,amminoacidi, estratti placentari, caffeina, fermenti probiotici (come i saccaromiceti che favoriscono il rinnovamento intracellulare), bioestratti
di origine vegetale o marina, derivati dal peperoncino o dal caviale, nonché cheratina idrolizzata.
Nuovissime sono anche le lozioni stimolanti la funzionalità del bulbo pilifero che celano frammenti di Rna e Dna idrolizzati, derivati per lo più dalle proteine della seta o del miglio». Funzionano? Sì, se si ha la costanza di frizionarle tutte le sere sul cuoio capelluto per molte settimane, fino a intravvedere un segnale di ricrescita.
«Vi è però un 5-7% di pazienti che non risponde ai trattamenti topici e ha bisogno di qualcosa di più “forte”», prosegue la dottoressa Mantovani. «Per ridurre la risposta autoimmune vengono quindi prescritte delle iniezioni intramuscolo di cortisone, da fare per un paio di settimane prima di passare alle compressine per bocca: vanno assunte secondo una dose a scalare per circa un mese».
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Articolo pubblicato sul n.19 di Starbene in edicoal dal 25/04/2017