di Laura Della Pasqua
1. Perché alcuni non si contagiano e che cos'è l'immunità innata?
2. Terza dose: è bene fare prima il test sierologico?
3. Malati oncologici e vaccini: le reazioni devono allarmare?
1. Perché alcuni non si contagiano e che cos'è l'immunità innata?
Uno dei gradi misteri del Covid, ma anche di tutte le pandemie, è: come mai alcuni soggetti finiscono in terapia intensiva e altri, pur a contatto ravvicinato con persone malate, non si contagiano? Gli ultimi studi dicono che alcune persone "godono" di quella che viene definita “immunità innata”. Ovvero una sorta di scudo invisibile che protegge dal virus e dalle sue varianti. È costituita da alcuni anticorpi naturali presenti nel nostro organismo sin dalla nascita. L’immunità innata risolve il 90% dei problemi causati dal contatto con batteri e virus. Precede l’immunità adattiva, che è la difesa più specifica effettuata dagli anticorpi e dalle cellule T eredità di guarigione o vaccini.
Due studi, di cui uno a opera di un team scientifico italiano (hanno partecipato l’istituto clinico Humanitas e l’Humanitas University, l'Irccs Ospedale San Raffaele, la Fondazione Toscana Life Science, l’Istituto di ricerca in biomedicina di Bellinzona e la Queen Mary University di Londra) ne hanno messo a fuoco i meccanismi. Abbiamo chiesto a Luca Perico, ricercatore del Laboratorio di Biologia Cellulare e Medicina Rigenerativa dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, di guidarci alla comprensione di questa svolta nello studio del Covid.
Dottor Perico, che cos’è l’immunità innata e come funziona?
«Il sistema immunitario innato rappresenta la prima linea di difesa, quella più antica e primitiva, che permette all’organismo di rispondere in modo generalizzato e poco specifico a un nuovo patogeno. In questa branca dell'immunità esiste anche un particolare sistema, detto del complemento, che partecipa al processo di difesa iniziale contro le infezioni. L'immunità innata, così come il sistema del complemento, sono la prima risposta che viene attivata appena un qualsiasi nuovo virus o batterio infetta il nostro organismo. Per essere efficace questa risposta immunitaria deve essere il più aspecifica possibile, ovvero deve saper riconoscere qualsiasi invasore anche se mai visto prima».
L’immunità vale per tutte le varianti del Covid, quindi anche per quelle future?
«In virtù della sua caratteristica di essere poco specifica e di rispondere in modo generalizzato a qualsiasi infezione, l’immunità innata reagisce in modo invariato verso qualsiasi tipo di virus, incluso SARS-CoV-2 e tutte le sue possibili varianti».
Come può un soggetto scoprire che ha un’immunità innata contro il covid? Esistono esami specifici alla portata di tutti?
«L'immunità innata è un sistema estremamente antico ed è presente anche negli organismi più primitivi, come ad esempio le stella marine. Anche l'uomo, come tutti i mammiferi, presenta un’immunità innata con la quale può combattere i diversi virus, tra cui anche SARS-CoV-2.
Non esistono esami specifici effettuati di routine che permettano di monitorare la risposta immunitaria innata. Esistono però particolari esami che vengono utilizzati per identificare anomalie della risposta innata, come ad esempio alterazioni del complemento, ma solo nel contesto di particolari condizioni patologiche».
L’immunità innata è presente sin dalla nascita o si può sviluppare durante il corso della vita?
«Ogni essere umano presenta un’immunità innata dalla nascita che lo rende in grado di rispondere ai patogeni esterni già dai primi giorni di vita. L'immunità innata, data la sua natura molto conservativa e non specifica, non prevede uno sviluppo nel corso della vita. A questo scopo, esiste un'altra branca dell'immunità, detta adattativa, che si basa sull’attivazione dei linfociti B e T, capaci di produrre anticorpi o riconoscere direttamente in modo molto mirato alcune parti molto specifiche di un nuovo patogeno. Queste cellule permangono per lungo tempo nell'organismo, a volte anche per tutta la vita, e sono in grado di rispondere in modo efficace qualora lo stesso patogeno contro cui sono addestrate dovesse infettare di nuovo il nostro organismo. Permettono quindi di mantenere una memoria a lungo termine contro i diversi patogeni incontrati nel corso della vita».
Ci sono alcuni soggetti che sono più predisposti ad avere tale immunità innata o è una scelta casuale della natura?
«È doveroso fare delle distinzioni tra il concetto di immunità innata e quello di immunizzazione. L’immunità innata, come già detto, è presente in tutti gli individui e garantisce una risposta rapida contro le infezioni da virus, batteri e altri patogeni. Avere questa risposta non equivale a possedere una “immunizzazione naturale” contro il Covid-19. Questa risposta innata infatti non è specifica per il SARS-CoV-2 che induce Covid-19 ma semplicemente agisce ad ampio spettro contro particolari molecole presenti sulla superficie della maggior parte dei virus presenti in natura. Esistono particolari predisposizioni genetiche individuali tali per cui ogni persona può avere una risposta innata più o meno efficace nel combattere le prime fasi delle infezioni. Non è detto però che una forte attivazione dell'immunità innata sia sempre un beneficio. L'attività dell'immunità innata deve essere strettamente bilanciata al fine di permettere un corretto controllo delle infezioni, evitando danni ai tessuti da eccessiva risposta che può provocare un'iperinfiammazione, come si osserva nelle forme gravi di Covid-19».
Qual è la quota di popolazione che ha l’immunità innata?
«Ad oggi non è chiaro quanto queste particolari predisposizioni genetiche siano diffuse nella popolazione generale e se queste siano effettivamente rilevanti sul rischio di contrarre infezioni gravi».
Chi ha l’immunità innata si deve vaccinare?
«Sebbene l’immunità innata giochi un ruolo chiave nel controllo delle primissime fasi delle infezioni, l'immunizzazione vera e propria si sviluppa con la risposta dell’immunità adattativa, quando la formazione di linfociti T e B porta alla produzione di armi altamente mirate (anticorpi neutralizzanti) diretti contro la molecola più caratteristica di un determinato patogeno, che nel caso del SARS-CoV-2 è la spike protein. Solo a questo punto un soggetto viene definito immunizzato.
La vaccinazione è uno strumento assolutamente essenziale che permette di generare una risposta immunitaria adattativa molto efficace, tramite la generazione di anticorpi altamente neutralizzanti e cellule T diretti contro il virus a lungo termine, cosa che non è permessa dalla sola immunità innata. Per questo tutti noi abbiamo bisogno del vaccino».
2. Terza dose: è bene fare prima il test sierologico?
Prima di vaccinarsi è opportuno fare il test sierologico? Chi è indeciso se vaccinarsi con la terza dose spesso sostiene che prima di decidere vuole verificare il numero degli anticorpi. Se sono in numero tale, sollecitati dalla vaccinazione primaria, da agire in modo efficace contro il rischio di infezione e quindi non richiedere il booster. Il monitoraggio dovrebbe essere fatto tramite il test sierologico. È una procedura corretta? Abbiamo girato la domanda all’immunologo, Mauro Minelli, responsabile per il Sud Italia della Fondazione italiana di Medicina Personalizzata.
«Per rispondere in maniera esaustiva a questa domanda, credo sia necessario fornire qualche dettaglio informativo sulle dinamiche immunologiche che conseguono all’infezione virale e che certamente interpellano le oramai ultrafamose IgG anti-Spike, prima linea di difesa prodotta dai nostri linfociti B contro l’aggressore. Collateralmente, però, entra in gioco anche un’altra particolare tipologia di globuli bianchi rappresentata, questa volta, dai linfociti T. Si tratta di cellule strategiche, grazie alle quali il sistema immunitario provvede a scovare e a neutralizzare le cellule del nostro organismo eventualmente infettate dal virus. Dunque gli anticorpi, ovvero le IgG che cerchiamo nei test sierologici, rappresentano solo uno dei meccanismi attraverso i quali i nostri sistemi di difesa esercitano la propria attività. E, trovarle o non trovarle con il test sierologico, non può essere l’elemento dirimente sul quale puntare per decidere se fare o meno il vaccino. Potrebbero essere bassi i livelli di anticorpi anti-spike facilmente reperibili con i test sierologici e, invece, alti i linfociti T la cui misurazione è tutt’altro che semplice, trattandosi di un esame costoso e assai sofisticato. Ciò che, tra l’altro, non consente di indagare aspetti assai rilevanti dei processi di immunizzazione, soprattutto relativi alla “memoria” dell’infezione che rimane immagazzinata in determinati “serbatoi” del nostro complicato sistema protettivo».
3. Malati oncologici e vaccini: le reazioni devono allarmare?
Il tema delle reazioni al vaccino viene spesso cavalcato da chi è contrario alla vaccinazione come la dimostrazione della pericolosità delle inoculazioni. Vogliamo qui sgombrare il campo da illazioni che nulla hanno a che fare con la scienza e restituire chiarezza al tema con un’attenzione rivolta soprattutto ai malati oncologici. Abbiamo chiesto all’oncologa Adriana Bonifacino, responsabile dell’Unità di Diagnosi e Terapia in Senologia, U.O.C. di Oncologia Medica presso l’A.O.U. Sant’Andrea - Università Sapienza di Roma e docente della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, di guidarci in questo percorso.
Professoressa, le reazioni al vaccino devono allarmare i malati oncologici?
«Assolutamente no, rappresentano, nei soggetti in cui si manifestano, la normale reazione al vaccino. Vuol dire che l’immunizzazione sta facendo il suo corso. Va anche precisato che ogni soggetto reagisce in modo diverso. Abbiamo notato nella pratica medica e in gruppi di studio, e questo è evidente anche nella letteratura scientifica in materia, l'aumento di volume e la dolorabilità dei linfonodi dei cavi ascellari, soprattutto dal lato della inoculazione del vaccino. Altri segni riscontrati sono infiammazione e dolorabilità del seno, qualche ascesso mammario per infiammazione di cisti già preesistenti, linfonodi palpabili del collo e della regione sopra la clavicola, l’infiammazione di una protesi ricostruttiva o estetica e in alcuni casi l’alterazione del ciclo mestruale. È bene ripeterlo, il vaccino sta lavorando per noi! Il vaccino per svolgere la sua azione deve creare reattività e in alcune persone questa è più accentuata. Peraltro, tranne in casi particolari, è bene non utilizzare farmaci antinfiammatori e far svolgere, il proprio corso al nostro sistema immunitario senza ostacolarlo».
Queste reazioni possono spaventare i pazienti oncologici, già sotto stress per la patologia e le cure. Che fare?
«È vero. I pazienti con un vissuto oncologico, recente o progresso, si allarmano se notano dolore, gonfiore, tumefazione in una parte del corpo dopo il vaccino, soprattutto se si tratta del distretto corporeo che è stato colpito dal tumore. Le persone vanno certamente visitate, al limite effettuare una ecografia di controllo, e vanno rassicurate sull’efficienza del loro sistema immunitario, sollecitato dal vaccino. Una raccomandazione che stiamo trovando utile, e in molti casi la certifichiamo, è quella di far effettuare la vaccinazione in un punto di inoculo lontano dal distretto che ha interessato il tumore. Chi, ad esempio, ha avuto un tumore della tiroide, della mammella, un linfoma del mediastino (torace), un melanoma del braccio o del tronco, chi ha in sede il port-a-cath per le chemioterapie, si allarma, giustamente, se nota gonfiori o dolore persistente dopo la vaccinazione. Uno stress e una spesa sanitaria che possono essere evitate, inoculando il vaccino, ad esempio, sul quadricipite femorale. È ovvio che bisogna vestirsi adeguatamente per ricevere la puntura velocemente».
Quindi il corpo è molto reattivo?
«Certo, ed è bene che lo sia. Pensi che nell’ecografia dei cavi ascellari è possibile vedere chi ha avuto un disturbo post vaccinale per la reazione dei linfonodi; a volte sembriamo degli indovini e i pazienti ci chiedono come sia possibile capire da una immagine se si sono avute delle reazioni o meno!».
Il paziente che segue una terapia oncologica può fare contemporaneamente la vaccinazione?
«Certamente sì, deve rispettare i protocolli. Desidero sottolineare che i malati oncologici in trattamento con chemio e/o immunoterapia, come altre categorie di persone fragili, compresi gli anziani, devono essere vaccinati, onde evitare complicazioni maggiori nel caso contraggano l'infezione da covid. Il vaccino è una copertura essenziale».