“E in un periodo d’allarme e di sofferenza come questo, che abbiamo bisogno di parlare bene”. A dirlo è Beatrice Balsamo, psicoanalista, esperta di estetica all’università di Bologna e ideatrice di Mens-A, il primo evento in Italia sul “pensiero ospitale” (in programma dal prossimo settembre 2021 in sette città dell’Emilia Romagna) e del CineClassic-Cinema per pensare (CineCare).
È così che l'autrice introduce il tema del suo saggio Nella Bellezza. Quando la parola manca (Mursia, 16 €), dedicato all’importanza che le parole rivestono nella costituzione del paesaggio “umano” in cui ci muoviamo.
Le parole non solo interpretano, definiscono il mondo e ce lo fanno comprendere, ma, soprattutto, costruiscono l’umanità, cioè ci fanno essere dei soggetti in relazione a qualcun altro. E se le parole sono giuste, fanno bene all’anima. Una cura della persona e della società, la priorità del momento.
Lei ha detto che il suo libro è adatto alla fase storica che stiamo vivendo, tuttomeno che bella (e non solo per colpa della pandemia)…
Il periodo che stiamo attraversando, e non solo per i problemi legati al coronavirus, soffre per l’impoverimento del “saper mettere in parola” a vantaggio di una comunicazione carica d’impulsività, piena di parole di violenza, cattiveria, invidia o indifferenza. È un tempo brutto, dove l’individuo non desidera più ascoltare, apprendere qualcosa di nuovo ma vuole solo respingere i simili o essere ammirato da tutti. E, in questa disgregazione sociale, responsabile della solitudine imperante, si è smarrito il concetto di bellezza
Cos’è la bellezza della parola?
Il saggio propone questo sincronismo: la parola “bella” è la parola “viva” , quella che fa accadere qualcosa sia in chi la pronuncia sia in chi l’ascolta. È una parola in cui s’esprime il bene che, secondo la filosofia classica, coincide con il bello: ossia, ordine, misura, argine contro ciò che ci distrugge e, insieme, protezione e sollievo contro i pensieri tristi.
Però noi usiamo poco la parola viva, e tanto la parola vuota. Qual è la differenza?
Sostanziale: la parola viva crea nessi, legami e possibilità tra le persone, quella “vuota” è fine a se stessa, poiché non porta alcun messaggio migliorativo, né in un senso né nell’altro. Le nostre conversazioni ne sono infarcite con tanti esempi. Come le espressioni “Non sai fare, non sei capace, non hai capito”, che tendono solo ad annullare chi ci ascolta. Oppure le affermazioni assolutistiche “Non hai capito niente, perché è vero il contrario.…”, che non lasciano spazio a un altro punto di vista. O ancora i discorsi inquisitivi, “Cosa hai fatto?” da cui ci aspettiamo solo delle risposte descrittive. Ma anche dire: “Sei stato lì per questo e quello, ma com’era il tempo?” è vuoto poiché crea confusione e confonde le idee. Ovviamente, in questa categoria rientrano anche le offese, le ingiurie, le diffamazioni, le menzogne
Ma perché allora le pronunciamo spesso?
Parliamo senza pensare, solo per effetto di un automatismo, del narcisismo, della prepotenza, dall’egoismo, quindi, la parola ci serve per ingannare, primeggiare, per distruggere o negare l’altro. In pratica, usiamo chi ci ascolta come un oggetto, un contenitore dei nostri bisogni, delle nostre proiezioni e delle nostre frustrazioni. Non a caso, le parole vuote producono godimento malsano solo in chi le pronuncia.
Invece, le parole vive come sono?
Sono dialettiche: mettono le persone (chi parla e chi ascolta) nella condizione di riflettere su se stessi, di aprirsi a nuove intuizioni, di sapere rivedere le proprie posizioni. Hanno la capacità, cioè, di fare diventare entrambi gli interlocutori i migliori possibili. Ecco perché la comunicazione viva è una comunicazione di cura.
Da dove nascono le parole giuste?
Dal pensiero riflessivo. Infatti, la parola “cura”, nella sua etimologia, non significa solo premura, ma anche meditazione, un’attività che crea saggezza pratica e temperanza. Se prima di aprire bocca ragioniamo, diamo un equilibrio ai nostri sentimenti, alle nostre emozioni, evitando di “spararli” in faccia all’altro attraverso parole inadeguate o sciatte. Ricordiamoci che facciamo esistere l’altro o lo demoliamo a seconda di come parliamo.
A cosa dobbiamo tendere?
A creare un’alleanza comunicativa, che trasformi la conversazione in un dialogo, quella condizione che ci permette di esprimerci e di essere ascoltati, senza essere giudicati e, insieme, permette all’altro di esprimersi e di essere ascoltato con altrettanta libertà. Il suo fondamento è il confronto, in modo da affiancare il nostro punto di vista a quello dell’altro. Per riuscirci è necessario riconoscere l’altro e mettersi in “direzione”. Il fine ultimo della parola viva è costituire anche relazioni più autentiche e gesti d’affetto.
Ci fa qualche esempio?
In ogni scambio, abbiamo sempre la possibilità di passare dalla reazione alla relazione (dal reagire al rispondere) e di amplificarla. Ma lo facciamo poco! Di fronte a un’amica che ci dice: “Sono andata al cinema a vedere... il film era fantastico!”, la nostra reazione più comune è quella di contrasto (“Ma no! C’era troppa violenza!”) o di noncuranza (“Ah, sì, sei andata al cinema?”) che potenziano solo sentimenti di prevaricazione o d’indifferenza. Se invece ci sintonizziamo con quanto ha detto l’amica con frasi di riscontro (“Sembra che il film ti abbia entusiasmato! Io, rispetto a quel passaggio, ho provato questa sensazione…”) o di amplificazione dell’apporto (“Sei entusiasta, racconta! Cosa ti ha colpito di quel film?”) siamo artefici di una comunicazione viva: ci siamo sintonizzati col terreno emotivo dell’interlocutore su un evento (il film); abbiamo colto il quid tra noi e lui (lo scambio di vedute a riguardo); abbiamo aggiunto le nostre idee alle sue, confermandole o criticandole. E, in simultanea, ci siamo messi in contatto con noi stessi, per capire se quel film ci piaceva (o meno) e perché.
Come si riesce a comunicare così? Quali sono le parole giuste?
Il primo passo è comunicare all’altro quello che proviamo e in cui crediamo. Per testimoniare la nostra unicità, servono parole come: “Ecco quello che sento, che penso”; “Ecco quello che ho vissuto e che mi ha ferito o fatto piacere”; o anche “Per me è vero questo…”. Il secondo è riconoscere che l’altro è un essere distinto da noi, e i pensieri che esprime sono suoi, e solo suoi. Non abbiamo bisogno di farli nostri, di combatterli o di denigrarli. Ci basta confermare ciò che ho capito di lui e cosa provoca in noi. Esempio: “Mi hai detto che vuoi lasciare gli studi. Mi addolora, mi sento impotente rispetto a questa decisione. Vorrei che tu ci ripensassi.” È anche importante distinguere l’interlocutore dal tema di cui parla. Esempio: “Mio figlio vuole abbandonare la scuola”. Risposta: “Cosa provi?” e dopo: “Hai capito perché?”. Insomma, dobbiamo preoccuparci più del soggetto (e dei suoi sentimenti) che dell’oggetto della conversazione. Poi, siamo noi a creare il significato immediato di un messaggio, e non sempre l’interpretazione è giusta. Quindi, prima di reagire male verifichiamo sempre la sua reale portata. Un esempio? “Ora non riusciamo a vederci” e capiamo “Non gli interesso più”. Per ultimo: non ci sentiamo obbligati a dare una risposta o a fare domande. Un dialogo, a volte, si esaurisce in un ascolto partecipato, e basta.
Le parole che è meglio evitare
Nello scambio, non sono costruttive né educative le espressioni di opposizione in cui erigiamo la nostra opinione contro quella dell’altro. Vedi l’imposizione, la minaccia, la punizione. Di fronte al “Devi, bisogna, occorre” possiamo dire “Secondo me occorre”, “Bisognerebbe che…”. Idem per i toni minacciosi: frasi come “Attenzione, se fai questo..”, “Guarda, te ne pentirai”, dovrebbero essere sostituite da “Questo tuo comportamento mi allarma” in cui si evidenzia la nostra autentica ansia, e non la voglia d’imporsi. Ma non funzionano neppure le colpevolizzazioni con accuse: “Per colpa tua, tuo padre si è ammalato.” O i paragoni: “Tuo fratello, lui sì è un bravo ragazzo”, o le lamentele : “Dopo tutto quello che ho fatto per te...”. Occhio anche ai messaggi doppi: “Sei piccolo per uscire tutte le sere, quando sarai grande farai quello che vorrai…”; “Puoi fare ciò che vuoi, ma tuo padre non approverà”.
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