Perché la retorica è l’arte della persuasione

Uno sguardo attuale e pratico sul buon uso della parola. Per non dire mai più che i nostri discorsi cadono sempre nel vuoto o che nessuno ci capisce



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Tutto meno che retorici, è il motto dei tempi moderni. Questa è la maschera con cui presentiamo i nostri discorsi, di qualsiasi tipo e in qualsiasi contesto. Non siamo disposti ad ammetterlo eppure, sotto sotto, tutti vogliamo che le parole espresse abbiamo un colore, un calore e soprattutto una potenza persuasiva. Non siano proprio gettate al vento, come si suol dire. «E questa che cos’è se non retorica?», chiosa Flavia Trupia, autrice del libro Viva la retorica sempre! (Edizioni Piemme).

«Sono tantissime le circostanze in cui cerchiamo di portare l’altro dalla nostra parte, di convincerlo che siamo nel giusto, che abbiamo il diritto di ottenere una certa cosa. Ci muoviamo, quindi, nel campo in cui la retorica è l’unica risposta possibile, ma da qui a riuscirci è un altro paio di maniche. Insomma, siamo retorici senza cognizione, per questo poi non riusciamo a realizzare idee, sogni, desideri».

Per chi ha riletto la retorica in chiave contemporanea, tanto vale conoscere quest’arte antica come la Magna Grecia e imparare a servirsene per ottenere ciò che vogliamo e, nello stesso tempo, per “vaccinarci” dalle parole che ci escludono, ci fanno sentire meno di niente, ci prendono in giro, ci feriscono.


Flavia, ma quanta diffidenza c’è nei confronti della retorica…

Questa parola gode di pessima fama. Si dice che si mette in campo quando non si ha nulla da dire, quando si vuole gonfiare il discorso, quando si vuole imbrogliare qualcuno. C’è un elemento di verità in questo, è impossibile negare il potere manipolatorio della retorica. Ma, di fatto, senza la retorica sarebbe molto più difficile passare dal dire al fare, ossia tradurre le parole in un risultato concreto. E questo vale sempre, sia che le intenzioni siano buone o meno.


Tradotto così, su due piedi?

La retorica è una disciplina che ha un aspetto pratico, possiamo tranquillamente dire che è una “scuola di sopravvivenza”. Ci aiuta a costruire un ragionamento e un discorso per affermare la nostra visione del mondo, per difendere quello che ci appartiene, che potremmo avere perché ce lo meritiamo o anche per accaparrarci quello che ci manca perché non ci spetta. Ognuno secondo la propria morale può fare l’uso che vuole di questa tecnica. Ma ignorarla, a mio avviso, sarebbe deleterio.


Però, lo facciamo puntualmente…

Per un errore di fondo, molto molto comune: nei nostri piccoli deliri di onnipotenza, ci piace pensare di poter convincere gli altri solo con l’inoppugnabilità dei fatti, mostrandoli come verità assolute. Tuttavia rimaniamo delusi, dal momento che la persuasione non è un meccanismo automatico: ciò che per noi è un dato oggettivo, per l’altro può essere un’opinione giacché qualsiasi cosa può essere soggetta a interpretazioni, confutazioni, rifiuti. È qui che entra in ballo la retorica come maestria della parola. Più mi esprimo in una certa maniera, più ottengo qualcosa per me (o per altri) che mi sta a cuore.


Ma questa disciplina pretende una dialettica forbita?

Ecco un altro, grande errore che è nell’immaginario collettivo. La retorica non nasce con un fine estetico, ossia come un make-up che rende il discorso più bello, nobile, impressionante. E molto più sostanziale, vuole risultati tangibili.


Quindi, il retore chi è?

Colui che riesce a trasformare il prossimo, che sia il figlio, il marito, il collega, attraverso la forza delle sue parole. Ma la potenza persuasiva nasce solo dalla motivazione che è capace di trasmettere in chi lo ascolta. Le sue chiacchiere, dunque, sono tutto meno che un autoincensamento. L’obiettivo si centra solo mantenendo un atteggiamento umile e aperto a riconoscere l’altro. Deve percepire che anche lui può fare la differenza con le sue azioni.


In pratica, come si fa il salto di qualità?

Con l’ascolto, tanto per partire bene. In qualsiasi conversazione, è la tecnica retorica più efficace: stare a sentire quello che ci dice la controparte ci permette di avere tante informazioni utili. Peccato che lo facciamo raramente, soprattutto nelle situazioni cruciali – vedi una riunione di lavoro, una discussione in famiglia, una decisione importante da valutare con il medico – presi come siamo su quello che noi dobbiamo dire per cercare d’imporci. Eppure, niente agli occhi dell’altro è più seduttivo, per il suo ego, dell’essere ascoltato in modo attento. Quest’accoglienza viene avvertita subito, se mentre parliamo lo guardiamo negli occhi, teniamo le braccia rilassate lungo il corpo o sulle ginocchia, il respiro è calmo.


Ci saranno anche le frasi giuste da dire, no?

Qualunque sia il tema dibattuto, la retorica ci insegna a iniziare il dialogo citando le parole dell’altro (“come tu hai accennato”; “mi ricollego alle tue parole…”). Un’altra espressione propiziatoria è “…non ci avevo mai pensato ma quello che hai detto …”. Sono tutte asserzioni, queste, con cui dando valore, importanza alla controparte l’effetto è spesso premiante. Mentre usare l’incipit “come buonsenso suggerisce…” irrita, allontana: è come mettersi su un piedistallo, e partire dal fatto che la nostra opinione è superiore.


Altri suggerimenti a buon fine?

Trasformare il difetto dell’altro in un pregio ai nostri occhi, per esempio. Una persona agitata, nelle nostre descrizioni, diventa solo esuberante; una disordinata si trasforma in creativa; una timida è solo riservata. No, questa parte della diplomazia non è falsità o, peggio, inganno. Usare parole gentili, morbide è un modo per fare risaltare l’altro e fare emergere il meglio da qualsiasi contatto. Gettare i presupposti, insomma, per creare un buon clima lavorativo, famigliare, conviviale. La retorica, infatti, ci suggerisce che non dobbiamo insegnare agli astanti come dovrebbero essere e che noi non siamo necessariamente chiamati a fare i “profeti”.


Ma non c’è il rischio di apparire ipocriti?

C’è differenza tra l’adulatore e il retore: il primo è generico, l’altro preciso. Jannik Sinner, fresco vincitore degli Australian Open, ha conquistato il mondo con una dichiarazione retorica: “Vorrei che tutti avessero genitori come i miei che mi hanno lasciato libero di scegliere quello che più mi piace fare…” Non ha detto: “ho i migliori genitori del mondo…”, roboante e poco credibile. Ha detto che stima i familiari per non averlo mai pressato. Un parere, quando è circoscritto, fa apparire i sentimenti veri, autentici.


È anche un’arma di conquista?

In amore non vincono i complimenti sperticati, inverosimili, lasciano il tempo che trovano o danno l’idea di una presa in giro. Quello che attrae è l’evidenza di essere apprezzati per come si è, e basta. Seduce di più sottolineare che lui/ lei ci piacciono per quel piccolo difetto che hanno, piuttosto che arrampicarsi su iperboli di bellezza, intelligenza, classe. Film cult come Harry ti presento Sally o Notting Hill lo insegnano. E se non è retorica questa…


Retorici e spregiudicati?

Sì, ma il problema va visto sotto un’altra luce. Nel senso che se conosciamo la retorica, le sue strategie, le sue malie, le sue magie siamo, indirettamente, più consapevoli di quello che diciamo e come agiamo. Ci rendiamo conto che con le parole possiamo fare del bene o del male. La retorica è amorale, totalmente, ma l’etica è dentro noi stessi. Solo noi possiamo determinare come usarla.


La carica eloquente del silenzio

La convinzione comune è che i discorsi migliori siano tutti di un fiato. Senza esitazioni, per ostentare sicurezza e densità di contenuti.

«Niente affatto, un fattore importante del ben parlare è il silenzio», continua l’esperta. «Soprattutto in ambito professionale, fare una pausa tra una frase e l’altra, soffermarsi qualche secondo per trovare il termine più opportuno, prendersi un attimo per guardare chi si ha di fronte, ha il potere di fare emergere il senso dei nostri discorsi, renderli più interessanti e autorevoli. Mentre parlare a macchinetta dà l’impressione di essere incerti, poco preparati – dico tutto subito, altro non so – o, cosa peggiore, imbonitori che vogliono gettare fumo negli occhi con una chiacchiera supersonica».


Jannik Sinner, doppio trionfo con una frase

La vittoria agli Australian Open era attesa, la dedica ai genitori durante la premiazione ha fatto boom. C’è lo zampino della retorica, se Jannik Sinner è diventato anche campione di sentimenti. Trascinante, meglio virale, con quella riconoscenza verso chi lo ha lasciato libero di scegliere lo sport della sua vita. Niente di più vero, visti i risultati in campo...


Il discorso dell'ascensore

Far passare il proprio progetto (di vita, di lavoro, di famiglia, di vacanza) non è uno scherzo da ragazzi e, tra le difficoltà maggiori, c’è quella di non catturare l’attenzione da chi dovrebbe dire: “ok te lo finanzio, sono d’accordo, è possibile…”

«Anche qui, ci viene incontro la retorica», suggerisce Trupia. «Con la pratica del “discorso dell’ascensore”: quel minuto, minuto e mezzo al massimo (giusto il tragitto tra un piano all’altro) in cui ci concentriamo su un’unica tesi». La stessa che, poi, a cascata porta altri vantaggi da spiegare in un flash conciso. I dettagli rimandiamoli ad approvazione avvenuta.


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