«La prima volta è capitato per caso, 4 anni fa. Ero per strada, a piedi, stavo andando a lavorare. Ho iniziato a sentire un senso, opprimente, di soffocamento. Ero certa che fosse un infarto. Invece era un attacco di panico, il primo di tanti».
Marta Cappellini, 35 anni, impiegata con due figli, di Torino, racconta così l’inizio del suo faticoso calvario, durato ben 2 anni.
«Non c’era stato un motivo scatenante. Era un periodo faticoso, ma mi pareva di riuscire a barcamenarmi, come sempre. Invece il mio corpo reagiva alla pressione che subivo al lavoro, alle mille corse per seguire gli impegni dei miei bambini. Non riuscivo a prendermi del tempo per me. Gli unici momenti di evasione erano quelli che dedicavo ai social. La sera, prima di dormire, passavo ore e ore su Facebook», racconta con consapevolezza.
«Sentivo il bisogno di connettermi per vedere cosa facevano persone che, in realtà, non erano nemmeno mie amiche. Solo perché ero annoiata e insoddisfatta».
Non trovavo una via d’uscita
Ma questa “fuga” nel mondo virtuale non faceva che aumentare in lei lo stress, creando un circolo vizioso: un fenomeno tipico delle cyberdipendenze. Rimanere connessi a lungo, spiando le vite degli altri porta a perdere il senso della realtà; basti pensare che c’è chi arriva a falsificare i post, per creare e mostrare agli altri, a propria volta, una vita di successo.
Gli addicted tendono quindi a isolarsi, per poi essere vittime di fobie e attacchi di panico: è quanto sostiene un recente studio dell’Australian Psychology Society, pubblicato sul National Stress And Wellbeing Survey. Proprio come Marta che, dopo una crisi particolarmente intensa, pensa di poter morire da un momento all’altro.
«Temevo di avere un problema cardiaco. Credevo di impazzire, avevo paura di sentirmi male mentre guidavo o mi trovavo da sola, con i bambini. Invece gli esami erano perfetti. Quindi ho capito che lo specialista da contattare era lo psicologo», continua la nostra protagonista, che sperava in una soluzione semplice.
«Invece ho iniziato un lungo ciclo di psicoterapia cognitivo comportamentale. Ho dovuto abituarmi a fare spazio, nella mia vita, anche per me stessa. Io arrivavo sempre dopo tutti ed è stato faticoso riprogrammare le mie giornate», aggiunge.
Un passaggio indispensabile è stato chiudere definitivamente con i social, eliminare Facebook dalla quotidianità e imparare a riorganizzare la giornata. Una decisione non facile per lei. L’aiuto, fondamentale, è arrivato dallo sport.
«Facevo terapia ormai da quasi un anno, volevo rimettermi in forma e avevo voglia di stare con la mia amica del cuore, Giovanna, una super sportiva», commenta sorridendo.
Così, 14 mesi dopo il primo attacco di panico, inizia l’avventura del running. Ed è proprio grazie alla corsa che, finalmente, Marta comincia a dimenticare davvero i social e a stare meglio.
Lo sport è stata la mia salvezza
«Abbiamo iniziato con 2 sedute settimanali, insieme a un gruppo organizzato da un personal trainer. Giovanna mi dava sprint, io ce la mettevo tutta per non mollare. Ho tenuto duro perché c’era lei che non accettava scuse; anche se ero stravolta, i nostri appuntamenti con la corsa non si potevano cancellare», racconta con tanta gratitudine per l’amica. E le soddisfazioni arrivano presto.
«Già dopo 2 settimane correvo per mezz’ora di fila. E avevo più forza nell’affrontare le piccole difficoltà quotidiane», spiega. Così affianca anche la bici e poi il trekking. «Coinvolgendo alcune nuove amiche del corso di running abbiamo iniziato a camminare sulle colline intorno alla città e a organizzare weekend sportivi. Finalmente, a 2 anni dal mio primo attacco di panico, mi sento benissimo. Ora riesco a godermi la mia, di vita», conclude.
Depressione e dipendenza da social
Il mondo della scienza sta indagando sempre più a fondo il legame tra dipendenza dai social e depressione. L’Università della Pennsylvania (Usa) ha verificato, in uno studio su 150 studenti della facoltà di psicologia, che ridurre l’uso di Facebook, Instagram e Snapchat a mezz’ora al giorno, aiuta a uscire dalla depressione e dall’ansia dell’abbandono. Perché si limitano le frustrazioni che nascono dal confronto tra la propria vita e quella, spesso irreale, proposta sui social. Si ritorna, quindi, a focalizzarsi sulla realtà, ad ascoltare le proprie esigenze, a seguire gli obiettivi e a trarne le giuste soddisfazioni.
«Al contrario, l’uso costante dei social aumenta il senso di inadeguatezza e più i tempi si dilatano, ne abbiamo conferma scientifica, maggiore è l’insoddisfazione. Crescono, quindi, gli stati d’ansia, la depressione, gli attacchi di panico, la fear of missing out, cioè il timore di perdere informazioni fondamentali perché non si è connessi e, semplicemente, il senso di solitudine», commenta l’autrice dello studio, la psicologa Melissa Hunt.
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Articolo pubblicato nel n° 16 di Starbene in edicola dal 2 aprile 2019