A intossicarci non c’è solo lo smog. Ci sono anche le “male” parole. Quelle che colpiscono l’anima di chi le ascolta. E di chi le pronuncia. Anna Lisa Tota, professore ordinario di sociologia della comunicazione presso il dipartimento di filosofia, comunicazione e spettacolo dell’Università di Roma III, con il suo recente saggio Ecologia della parola mette l’accento su un fenomeno collettivo poco conosciuto, ma potente. Sudbolo, ma che s’allarga a macchia d’olio.
«Nel mondo, c’è un inquinamento verbale molto elevato che ci avvelena e con il quale noi avveleniamo gli altri, spesso senza rendercene conto», spiega. «Mentre ci preoccupiamo, e giustamente, dello “sporco” dell’ambiente non diamo peso a ciò che ascoltiamo o diciamo. Tipico di una società che tiene in considerazioni solo le azioni, e non le parole. Se negative, sciatte, inappropriate o superficiali, queste pesano sulla vita di ciascuno e possono produrre molti danni, soprattutto se vengono subite nell’infanzia e per un lungo periodo. C’impediscono, infatti, di crescere in modo sano, equilibrato. È come se venisse contaminato il nostro nutrimento emotivo, che poi si riflette sulla mente. La quale impara a pensare in modo inquinato perché conosce solo quel mezzo espressivo».
Gli effetti pesano per sempre
Da dove parte tutto? Da quel vizio, tremendo, di parlare tanto, troppo. «Apriamo bocca prima ancora di pensare e la foga di dire impedisce di controllare la qualità dei nostri pensieri, per decidere se vale la pena o meno di tirarli fuori», continua Tota.
«Un esempio di comunicazione distorta è la madre che apostrofa il figlio che ha mentito con: “Sei un bugiardo”. Oppure quando dichiariamo a qualcuno: “Sei razzista”. Ecco, in questi casi, abbiamo pronunciato oscenità. Perché abbiamo ridotto l’uno a una sola azione (bugiardo), l’altro a una categoria ideologica (razzista) e non abbiamo tenuto conto che le persone sono molto di più che un singolo atto o una certa opinione. Non sarebbe meglio dire: “Hai sbagliato a dire una bugia” o “Hai fatto un discorso che suona razzista”?».
Invece no, è stato più facile buttare là vocaboli inquinati: apparentemente innocui ma che, in realtà, incasellano l’altro, lo mettono in una gabbia che gli ricorderà che vale poco. Con tutto il carico di sofferenza, infelicità, dolore, tristezza che questo nemico interiore, creato dalle parole, comporta».
Siamo ciò che diciamo e ascoltiamo
Le brutte parole non sono le parolacce ma quelle “armi” capaci di ferire, di distruggere. È un problema a cascata: gli “inquinati” diventano a loro volta degli “inquinanti” che, nei loro discorsi, rovesciano addosso al mondo il loro disagio.
«Noi siamo le parole che pensiamo, pronunciamo e ascoltiamo», dettaglia ancora la professoressa Tota. «Ci formano e ci costituiscono letteramente. Poiché coincidono con l’idea che abbiamo di noi stessi e che viene riconosciuta o negata dagli altri. È un motivo più che valido per imparare, tutti, ad avere un eloquio corretto».
Come? «Non c’è bisogno di un linguaggio aulico, ma solo di rispetto. Perciò, diamoci tempo prima di aprire bocca e ponderiamo bene le nostre frasi. Ascoltiamo il più possibile e facciamo pause di silenzio, per raccogliere il flusso dei pensieri. Vale la pena provarci. In fondo, chi parla bene vive ancora meglio. Per un motivo tangibile: sa riconoscere subito chi si esprime come si deve e chi no. E sta alla larga dagli inquinanti. Nel contempo, è pronto anche a difendersi dagli attacchi velenosi, se serve. Ha dalla sua parte la consapevolezza della sua forza interiore».
L’ELOQUIO GIUSTO: PRECISIONE E GENTILEZZA
«Col tempo, le parole si consumano e si finisce per deformarle, deturparle», dice Massimo Angelini, storico della cultura e studioso di antropologia filosofica, che da anni dedica incontri, conferenze e saggi al tema (massimoangelini.it). «Alcune sono talmente abusate da essere diventare “liquide”, amebe che, adattandosi a qualsiasi circostanza, non vogliono dire più quasi nulla. Penso all’amicizia, che ha la stessa radice (“cam”, diventata “am” in latino) di amore: ma vogliamo bene a tutti gli amici di Facebook? Direi di no, spesso sono sconosciuti.
Penso alla cultura, che ormai appiccichiamo adosso a qualsiasi libro, cd, spettacolo. Deriva dal latino “colere”, sollevare, onorare e, quindi, dovrebbe essere solo ciò che ci fa crescere. Altrimenti è intrattenimento. Impossibile elencare gli esempi. Quello che mi preme sottolineare è che dobbiamo recuperare il vero significato delle parole, non tanto per fare un’operazione filologica quanto per pulire la nostra mente. E, di conseguenza, rigenerare la nostra vita.
È importante: sono le parole che fondono il pensiero e non il contrario, come si crede. Quindi, chiamiamo le cose per quello che sono realmente. Rapporto, per esempio, non è sinonimo di relazione. Il primo richiama un modello matematico e implica un sopra e un sotto (rapporto di lavoro, rapporto gerarchico, sessuale) mentre la relazione è orizzontale, tra pari. È quella che indica i legami d’amore, d’amicizia. Individuo vuole dire “non diviso”, è solo un’unità di misura in una massa indistinta. Diverso da persona, che viene dal greco prosopon (davanti allo sguardo): io ti mostro il volto e tu mi guardi. È l’inizio di un incontro».
Parlare bene è anche un fatto di galateo. «Non è tanto una questione d’etichetta, quanto di cortesia intesa come gentilezza d’animo», puntualizza la professoressa Giovanna Alfonzetti, autrice di Mi lasci dire. La conversazione nei galatei (Bulzoni, 21 €).
«In una conversazione “educata” ci prendiamo cura dell’altro e gli evitiamo situazioni di fastidio, imbarazzo o difficoltà. Il rispetto, insomma, è la base del buon parlare. Vietato, dunque, interrompere chi sta chiaccherando, rubargli la parola o fare un monologo. Così come sbadigliare, contorcersi sulla sedia, guardarsi intorno o, peggio ancora, leggere il cellulare.
Se poi siamo noi a prendere la parola, attenzione al tono di voce: troppo alta irrita, troppo bassa obbliga a uno sforzo di comprensione. C’è anche la cortesia del registro verbale da adottare: più che parole giuste o sbagliate, corrette o scorrette, dovremmo utilizzare quelle appropriate alla situazione. Secondo la teoria psicologica dell’accomodamento, la conversazione è ineccepibile se i parlanti cercano di ridurre le distanze e le differenze e danno il giusto peso a ciascuno. Come una danza sincronizzata dove ognuno fa la sua parte. Peccato, che la gran parte di galatei degli ultimi anni tenda a indicare come fare bella figura in società. Guide pratiche che puntano al successo personale. Ho qualche dubbio, però, che l’autoaffermazione vada a braccetto con il bon ton».
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Articolo pubblicato sul n. 19 di Starbene, in edicola e nella app dal 16 giugno 2020