Separarsi dopo anni insieme, dopo aver realizzato una famiglia, coltivato e progettato sogni, fa paura, suscita rabbia, crea una sensazione di vuoto difficile da gestire.
E poi ci sono gli aspetti pratici, le preoccupazioni economiche, i figli che fanno domande. Attraversare tutto questo non è mai semplice. Ecco perché spesso si chiede a un giudice, che sa poco o nulla di noi, in che modo mettere la parola fine alla nostra relazione. O ingaggiamo un avvocato che ci difenda dalla persona con cui abbiamo vissuto fino al giorno prima. Da qualche anno, però, c’è un nuovo strumento a disposizione di chi si sta separando. Continua a leggere per scoprire di che si tratta.
Che cos'è la pratica collaborativa
Si chiama pratica collaborativa ed è un metodo, nato negli Stati Uniti nel 1990, che permette a una coppia (sposata o non) di gestire la fine della propria relazione senza andare in tribunale per discutere tutti gli aspetti legati alla separazione, da quelli legali e organizzativi a quelli emotivi e relazionali, attraverso il supporto di professionisti qualificati. «L’obiettivo non è solo arrivare a un accordo, ma anche rendere i due partner attori protagonisti di una trasformazione interiore», spiega Anna Casali, mediatrice familiare e facilitatore dell’Associazione italiana professionisti collaborativi.
Attarverso una serie di incontri (in media 4 o 5, per una durata di un paio di mesi) i partner si siedono allo stesso tavolo e affrontano tutte le questioni legate alla separazione.
Che cosa cambia rispetto alla mediazione familiare
Con la pratica collaborativa la coppia è assistita da un team di professionisti composto da un avvocato per ciascun partner e da un facilitatore, una figura speciale che ha il compito di creare il clima giusto per un dialogo produttivo.
A questi due elementi, spesso si aggiungono anche un commercialista per sciogliere i nodi prettamente economici e, se ce n’è bisogno, un esperto dell’età evolutiva.
«La grande novità è che tutte queste figure lavorano con tecniche di negoziazione, ascolto attivo e comunicazione per un unico obiettivo, comune a entrambi i coniugi: raggiungere un accordo. Non ci sono avvocati contrapposti e non c’è un giudice a prendere decisioni al posto dei diretti interessati», spiega Francesca King, tra i primi avvocati in Italia a usare la pratica collaborativa ed ex presidente dell’Associazione italiana professionisti collaborativi.
«La procedura ha inizio con la sottoscrizione di un accordo in cui la coppia si impegna ad agire con trasparenza e buona fede. E il punto di arrivo è un documento finale, frutto del dialogo tra i due ex, che sarà formalizzato come previsto dalla legge a seconda del caso specifico: se i partner non sono sposati, tramite un ricorso congiunto al tribunale competente; se si tratta di una coppia sposata, attraverso la negoziazione assistita ed evitando il passaggio in tribunale».
Ciascuno deve esprimere bisogni e richieste
«Durante gli incontri previsti dalla pratica collaborativa, però, diventa chiaro che non ci si può abbandonare alla passività. Ciascun partner è chiamato a fare la sua parte, esprimendo soprattutto bisogni e richieste», spiega l’esperta. «Si impara presto che siamo in grado di prendere decisioni e abbiamo risorse e competenze per stabilire condizioni. È una sorta di empowerment personale, di rinforzo psicologico, molto utile in un momento così delicato».
La presenza degli avvocati, dei facilitatori e delle altre figure professionali aiuta a non sentirsi soli. «Il team collaborativo genera condivisione, aiuta la coppia a focalizzarsi sugli obiettivi da raggiungere, a superare l’impasse generata da litigi o cose non dette», spiega la dottoressa Casali. Gli incontri sono una sorta di contenitore emotivo dentro al quale sentirsi protetti. «Se scatta il litigio, infatti, c’è sempre qualcuno che aiuta la coppia a capire quale esigenza si nasconde dietro la rabbia o l’ostilità».
Il fattore tempo è un altro punto di forza. «L’iter di una separazione ci mette in stand by. Spesso ci si ferma, ci si smarrisce, si torna indietro. Con la pratica collaborativa, invece, non si perde mai di vista l’obiettivo e i tempi si accorciano notevolmente», afferma Casali. «A livello emotivo la rapidità è fondamentale: non si sprecano energie e la vita può ricominciare a fluire».
Perché non va bene per tutti
La pratica collaborativa, però, non è uno strumento adatto a qualsiasi relazione che sta per sfaldarsi. O meglio, non è una panacea che può risolvere tutto. «Affrontiamo anche casi difficili», ammette Casali. «Tuttavia ci sono situazioni in cui è meglio non procedere con questa metodologia.
Accade, per esempio, quando il conflitto tra i partner è troppo marcato, magari anche segnato da una violenza o da uno squilibrio di potere. Oppure quando uno dei due è troppo sofferente o depresso per riuscire a prendere in mano la situazione e capire che cosa è meglio per sé».
Anche se non esiste una condizione di partenza tipo, ci sono segnali inequivocabili che ti fanno capire se la tua situazione può essere affrontata con questo metodo non contenzioso. «Possiamo dire che la pratica collaborativa va molto bene quando una coppia ha già iniziato a elaborare la separazione e desidera voltare pagina, ma ha bisogno di un aiuto per riaprire la comunicazione o chiarire meglio certi punti. Oppure quando ci sono di mezzo figli piccoli e i due partner sono consapevoli del fatto che per il loro equilibrio è necessaria una “buona” separazione», specifica l’esperta.
Un impegno a collaborare con correttezza e buona fede
Essere idonei ad affrontare la pratica collaborativa non significa che la separazione sarà una passeggiata. Forse all’inizio dovrai vincere le resistenze del tuo ex, convincerlo che non vuoi fargli la guerra ma semplicemente affrontare insieme a lui un percorso speciale. «Consiglio sempre di informarsi bene sul nostro sito, coivolgendo anche il partner», aggiunge l’esperta. «È importante avere ben chiaro il presupposto da cui tutto parte: la sottoscrizione di un impegno a collaborare con trasparenza e buona fede. Quindi niente sotterfugi, manipolazioni, cose non dette. Gli avvocati vigileranno su questo aspetto, mentre il facilitatore lavorerà sulla comunicazione».
«Il primo incontro è il più complesso. Le parti all’inizio faticano sempre un po’ a mettersi in gioco e a riaprire un dialogo vero», spiega l'esperta. «Poi capiscono che sono all’interno di uno spazio sicuro, e così iniziano a vedere l’altro non come un problema, ma come una persona che ha bisogni simili ai propri.
La separazione è una difficoltà di tutti e due, le emozioni dell’uno sono le emozioni dell’altro: il senso di fine, la paura di non farcela, la necessità di avere sicurezze per un futuro da soli. Parlare di questo ricrea un clima di fiducia tra i partner: ci si dice tutto e la relazione si ripulisce dalle omissioni e dai rancori. E alla fine si lavora insieme per il mantenimento e la trasformazione del proprio rapporto».
Le soluzioni migliori vengono scelte, non subite
La pratica collaborativa si basa su una convinzione: le soluzioni migliori sono scelte dalle parti coinvolte e non imposte da una terza persona. Per questo, prima di intraprendere questa strada devi sapere che sarai tu a chiedere e a negoziare per te stessa. Negli incontri devono emergere le tue idee, le tue necessità, i tuoi bisogni. «Occorre sempre arrivare preparati», spiega Casati. «Lo si fa insieme all’avvocato, ma sarebbe bene anche fare una riflessione individuale».
Prima di incontrare il partner e il resto della squadra collaborativa, chiarisci a te stessa che cosa vuoi dire, le tue preoccupazioni, le tue esigenze. Fai un elenco dei punti che vuoi affrontare, così non li dimenticherai quando sarai sopraffatta dalle emozioni. «Se si lavora bene sui propri bisogni, la separazione diventa una rinascita, libera da ripensamenti o nodi da sciogliere», assicura Casali. «Qualsiasi tema può rientrare nell’accordo finale, anche quelli che in altre forme di negoziazione non trovano ascolto».
La gestione dei figli
I figli, naturalmente, costituiscono un capitolo importante. «Bambini e ragazzi hanno bisogno di sicurezze. Quando i genitori si lasciano, il loro mondo vacilla», spiega la mediatrice familiare. «Proprio per questo motivo è importante informarli che papà e mamma hanno intrapreso un percorso di pratica collaborativa. Naturalmente con le parole giuste e adatte alla loro età.
In ogni caso, il concetto da trasmettere è che i genitori stanno cercando di separarsi nel modo migliore grazie all’aiuto di persone esperte, con le quali parleranno anche dei figli. Sapere che mamma e papà stanno pensando anche a loro li farà sentire meno ansiosi e più fiduciosi nel futuro».
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Articolo pubblicato sul n. 4 di Starbene in edicola dal 09/01/2018