Prima la paura del contagio, adesso l’impazienza di tornare a vivere come si deve: ora che, dopo il lockdown dovuto al Coronavirus, ci si può anche muovere tra una regione e l'altra, resta l'incognita di scoprire (e toccare con mano) se la sospensione forzata dal lavoro, dai contatti sociali, dalla libertà di movimento e di scelta ci ha trasformato in un caleidoscopio umano diverso. Rigenerato, in una parola. Insomma, come sarà davvero la ripresa? La parola a Fabio Galimberti, psicoanalista.
Dietro al termine “ripresa” che aspettative ci sono?
Al netto delle differenze oggettive (se uno ha lavorato o meno, se è stato solo o in famiglia, se ha avuto un lutto) e soggettive (quali le emozioni provate) con cui ciascuno sperimenta la quarantena, in linea generale la ripresa s’identifica con il ritorno alla normalità. Alla solita vita, più o meno com’era prima del Covid-19. Per me, non sarà difficile vedere un’amnesia di massa: dimenticare è una delle maggiori difese di cui l’umanità dispone. Riprendere le nostre abitudini di sempre, infatti, è il modo più comune per annullare nella nostra psiche un momento così difficile.
Ci sarà, quindi, poca memoria di questo periodo?
Non credo che avverrà una rigenerazione collettiva. Tra un po’ ci sarà un nuovo tempo, arriveranno altri fatti che renderanno il periodo del Covid-19 preistoria, come spesso è successo. Ci saranno solo delle singole “fioriture”, alcune o molte persone - quante non è un dato contemplabile - ne trarranno delle conseguenze rispetto ala loro interiorità. L’epidemia, in fondo, è una forza svelatrice e ci dà l’occasione per pensare e smontare tante convinzioni su noi stessi. Non è, perciò, che la quarantena ha cambiato il mondo. È l’individuo, semmai, che coglie l’occasione per crescere. E in quest’evoluzione, gli introversi, quelli a stretto contatto con se stessi, ne sono avvantaggiati.
Perciò il Coronavirus ha dato nuove lezioni di vita, almeno a livello individuale?
Alcune novità le ha portate e le porterà. A partire dal ruolo del desiderio nella vita, quella vocazione incessante che ci spinge a rincorrere persone e situazioni. E che, spesso, ci fa sentire insoddisfatti, frustrati, perché non siamo riusciti a realizzare le nostre aspirazioni più sentite. È un condizionamento esistenziale, spesso punitivo, che la clausura ha sbriciolato in quanto ci ha permesso di coglierne il lato oscuro. Facciamo l’esempio del grande mito contemporaneo, il tempo libero. Lo abbiamo agognato fino a febbraio, ma adesso, con giornate ridotte all’essenziale, abbiamo scoperto che non sappiamo cosa farcene. L’equazione è semplice: bramiamo quello che non possediamo. Di più, ci costruiamo nella vita quegli ostacoli che ci permettono di continuare a desiderare, altrimenti i nostri sogni non esisterebbero. Ecco, con molte ore a disposizione, tutte per noi, magari abbiamo depennato dalla nostra lista tanti desideri, tante aspirazioni che ci tenevano sotto scacco. Li chiamiamo tali, ma forse non lo sono.
Ripartiamo, insomma, con meno aspettative personali?
È uno spunto di rinnovamento importante per il futuro. Come siamo stati in grado di sopportare la segregazione, saremo anche più preparati ad accettare l’esistenza così com’è, senza dovere fare i super eroi. La situazione attuale ridimensiona questa spinta all’autorealizzazione, alla scoperta del proprio talento, alla corsa a mete altissime che ha prodotto molti danni. Che ci ha reso traballanti, tendenti a sentirci depressi, perdenti. Chissà se invece potesse iniziare una nuova mitologia della vita ordinaria!
Ma il rientro non sarà il regno dell’appiattimento?
No, anzi potrebbe essere il trionfo della consapevolezza di chi siamo. Questo è il punto massimo d’arrivo di una persona, non una sconfitta. Non significa, infatti, accettare il proprio destino in modo vittimistico, arroccarsi in una posizione statica. Significa, invece, accogliere la debolezza, che tutti abbiamo, e allontanarci dall’idea, rovinosa, di avere un modello da raggiungere. Una chimera, questa, che ci mette nelle condizioni di fare continui paragoni con il mondo. Ma la gara è impossibile: nella vita non esistono i confronti, quello che vuole l’uno, non lo vuole l’altro.
Ci affacceremo alla ripresa con maggiore autenticità?
La grande scommessa è la possibilità di reinventarci in modo più genuino. Tutti abbiamo qualcosa che ci fa sentire fuori posto e passiamo gli anni a cercare di nascondere quest’idea “disastrosa” di noi stessi. Ma non dobbiamo vergognarci di vivere per quello che siamo. Quello che ci fa imbarazzare è la nostra principale risorsa, quando riusciamo a integrarla nel cammino quotidiano. Ora, quindi, che siamo più in intimità con noi stessi e possiamo incrociare la nostra parte più vera, andiamogli incontro. Scopriremo che non è così drammatico. Raggiungere questo grado d’ammissione ci farà bene, invece di farci male.
Oltre che più indulgenti con noi stessi, saremo anche più aperti con gli altri?
Difficile dirlo ora, in una fase dove tra le persone serpeggia paura, sospetto e diffidenza. C’è una sorveglianza reciproca talmente alta e attiva che non mi permette di raffigurare, a breve, il ritorno alla fiducia e la cordialità. Anzi, adesso che siamo abituati a tenere rapporti a distanza, magari domani li allontaneremo ancora di più. Ma, per fortuna, è tutto da scoprire!
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Articolo pubblicato sul n. 17 di Starbene, in edicola e nella app dal 21 aprile 2020