La forza più potente di cui disponiamo sono le parole: possono cambiare il destino di chi le pronuncia e di chi le ascolta», dice il life coach americano Yehuda Berg.
«Peccato che spesso non ne siamo consapevoli e le trattiamo con leggerezza, per esempio utilizzandone troppe, scegliendo quelle sbagliate, oppure esprimendoci in un momento poco opportuno o con modalità inadatte alla situazione. Con il rischio, molto concreto, di mettere a dura prova (se non di rovinare) le nostre relazioni».
Colpa della distrazione e dei ricordi negativi
«Spesso parli a sproposito a causa della disattenzione: non stai veramente ascoltando il tuo interlocutore e intervieni con commenti e domande inutili o non pertinenti», esordisce Sara Zamperlin, psicologa e psicoterapeuta. «Dietro all’incontinenza verbale, esistono anche ragioni più complesse, che nascono dal tuo mondo interiore e ti impediscono di sintonizzarti sul prossimo e sulle circostanze, oppure di tradurre bene pensieri ed emozioni in parole».
Lo conferma la scrittrice britannica Amber Hatch che, nel libro L’arte di stare in silenzio (Newton Compton, 10 €), spiega cosa può succedere quando una situazione comunicativa ti porta in contatto con emozioni o sentimenti indefiniti ma negativi, anche appartenenti al passato: ci si sente turbati dalle parole dell’altro, nervosi e si finisce per parlare di getto, senza riflettere, come se si stesse recitando le battute di un copione teatrale.
Forse ripetiamo ciò che sentivamo dire dagli adulti quando eravamo piccoli in quella determinata situazione, oppure attingiamo a qualcosa che abbiamo letto o a una conversazione che abbiamo ascoltato. In ogni caso, ci esprimiamo con termini e toni artefatti, che non ci appartengono. Succede allora che l’altra persona rimane spiazzata e, se non riesce a intuire il disagio che si cela dietro le nostre parole, ci attacca o si chiude su se stessa.
Insicurezza, vulnerabilità ed egocentrismo
Secondo la psicologa Sara Zamperlin, è più facile stra-parlare sotto la spinta di alcuni pungoli emotivi, spesso inconsapevoli. Tu prova a individuare quella (o quelle) che ti caratterizza(no):
1. perfezionismo: ti senti in dovere di dire la cosa giusta al momento giusto e questo ti toglie lucidità e tranquillità, elementi indispensabili per un discorso autentico e sensato;
2. senso di inadeguatezza: non ti ritieni all’altezza della persona con cui dialoghi, o della situazione in cui ti trovi. Come nel caso del perfezionismo, l’imbarazzo e il disagio ti agitano e ti fanno straparlare.
3. egocentrismo: non ti decentri dal tuo punto di vista e ignori o sottovaluti la sensibilità altrui. Ciò che dici può risultare quindi indelicato e offensivo.
4. timore di un attacco o di un’umiliazione: credi che l’altro costituisca una minaccia per te, quindi tendi a interpretare male le sue parole/azioni e lo ferisci verbalmente, finendo per diventare aggressiva tu stessa.
5. ingenuità o “ignoranza”: sebbene tu abbia ottime intenzioni e capacità (ti metti nei panni dell’altro, scegli le parole con accortezza...), non sei in possesso di alcune informazioni e/o trascuri delle convenzioni sociali o dei dettagli. Di conseguenza ci si sente fuori luogo, sgraditi, maldestri come un elefante in una cristalleria.
Quella grande risorsa che è il silenzio
Individuare il motivo che ti spinge a parlare in modo avventato è un primo passo verso un maggiore controllo delle tue esternazioni, ma potrebbe non bastare.
Innanzitutto, riscopri il vecchio ammonimento di contare (almeno) fino a 10 prima di aprire bocca: «Il silenzio placa la mente, e talvolta non esprimere subito un’opinione, non rispondere di getto a quella che sembra una provocazione, non dare libero sfogo a lamenti e recriminazioni può far sciogliere come neve al sole seccature e conflitti», spiega la monaca buddista zen Kankyo Tannier nel libro La cura del silenzio (S&K, 16,90 €).
«Tutti abbiamo idee, opinioni e osservazioni da esprimere sugli argomenti quotidiani, ma se ci “dimentichiamo” di formularle, perdono importanza piuttosto in fretta. Per esempio, un conflitto con un collega, se non verbalizzato e soprattutto non commentato con tutta la tua rete professionale, finirà per sfilacciarsi come un vecchio maglione. Certo, tutto dipende dal contrasto in questione – la regola non è assoluta –, ma il silenzio offrirà senz’altro spazio per risolvere il problema.
Ne è prova la scelta di andare a fare jogging per “schiarirsi le idee”: una corsa in silenzio libera la mente dal ronzio interiore. Al ritmo delle falcate, le parole piano piano svaniscono: ogni movimento di gamba, come la pennellata di un pittore, fa apparire lentamente l’orizzonte. E secondo i più saggi tra noi, l’orizzonte – la calma – è sempre presente dietro le apparenze. Basta un niente per riscoprirlo».
È bene essere sempre se stessi ed esprimere i veri sentimenti
«Se invece il problema sono emozioni e sentimenti spiacevoli, come soggezione od oppressione, esplicitalo con una frase anziché camuffare il tuo disagio (con gli esiti disastrosi visti più sopra!): “Ora mi sento troppo emozionata per dire qualcosa”, oppure “Vorrei sapere cosa dirti in questo momento, ma non trovo le parole”», consiglia la dottoressa Zamperlin. «Dopodiché va benissimo stare in silenzio, purché sia un silenzio significativo, in ascolto dell’altro, e non un silenzio vuoto e distratto, che comunica disinteresse.
Le parole giuste da dire
Questa strategia torna utile anche in uno dei contesti più a rischio di gaffe in assoluto, cioè in presenza di persone che stanno vivendo una sofferenza. Mi spiego con due esempi. L’amica si è lasciata con il fidanzato? Se, con l’intento di consolarla, le dicessi “Lui non ti meritava, ti trattava male!”, lei potrebbe sentirsi svalutata (“Ma come, non me ne sono mai accorta... devo proprio essere stupida”). Muore un anziano? Probabilmente i suoi parenti non trarranno conforto da parole come “Non siate tristi, ha vissuto a lungo e ha fatto del bene a tanti”: potrebbero pensare che sminuisci la loro tristezza. Che fare, allora? Esci dall’idea di poter cambiare il dolore dell’altro: puoi solo sintonizzarti con il suo stato emotivo, stargli vicino e provare a reggerlo con lui.
Se proprio vuoi parlare, focalizzati sui tuoi stati d’animo, che non sono mai a sproposito perché nessuno può contestare come ti senti (“Sono dispiaciuta per te”, “Quello che ti è successo mi addolora”). Attenzione, comunque, a non portare l’attenzione su noi stessi (“Sai, è capitato anche a me, e allora io...”): l’accenno alla tua persona serve a creare empatia con il prossimo, non a diventare il centro del discorso».
Allena la capacità di metterti nei panni degli altri
Se per rimediare alle figuracce indotte da ingenuità e da scarsa conoscenza di fatti/dinamiche c’è ben poco da fare (a parte riconoscere che ti mancano dei tasselli e, dunque, limitarti a dire lo stretto necessario), per arginare gli sproloqui da egocentrismo e aggressività devi rimboccarti le maniche e allenare l’empatia, cioè la capacità di metterti nei panni altrui.
«La specie umana è “programmata” proprio per questo e non per l’egoismo e l’autodifesa a scapito dei simili, come invece ci hanno fatto credere per oltre tre secoli», incoraggia Roman Krznaric, filosofo sociale australiano studioso di empatia. «Sforzati, quindi, di immedesimarti nel prossimo, anche nel tuo “nemico”, riconoscendo la sua umanità, individualità e punti di vista. Prendi l’abitudine di interessarti alle persone, sconosciuti compresi, e poni loro delle domande: ciascuno ha una storia da raccontarti, ascoltala senza pregiudizi.
Allo stesso tempo, si deve essere disposti a togliersi la maschera e a rivelare qualcosa di noi stessi. Perché l’empatia che libera dall’individualismo e dalla prepotenza si costruisce su uno scambio: solo se ti metti alla pari con gli altri e ti apri a loro, anch’essi saranno disposti a farlo con te».
I micro-silenzi: pausa non significa rifiuto o imbarazzo
Pochissimi secondi di silenzio (ne bastano quattro) da parte della persona con cui stai conversando, non appena tu hai terminato una frase: abbastanza perché il tuo inconscio li noti, li interpreti come un intoppo alla fluidità del dialogo e ti comunichi “Ops, devo avere detto qualcosa che non va!”. A questo punto, anche se la chiacchierata riparte, ci si può sentire a disagio, per esempio vagamente impauriti, feriti, rifiutati.
Questo effetto scombussolante dei micro-silenzi è stato studiato dagli esperti del dipartimento di psicologia sociale dell’università di Groninga (Paesi Bassi), che hanno pubblicato uno studio in merito sulla rivista scientifica Journal of Experimental Social Psychology. «Siccome, il silenzio ha un significato ancestrale di rifiuto e di esclusione sociale, quando una pausa inaspettata turba il flusso di botta e risposta, ecco che subentrano le sensazioni negative». La bella notizia è che non sempre tali emozioni sono giustificate: spesso, le interruzioni momentanee del dialogo sono solo innocui attimi di riflessione o di svagatezza e non veicolano né disaccordo né disapprovazione.
Quando non è colpa tua
Hai fatto di tutto per esprimerti in modo cauto, rispettoso ed empatico, eppure il tuo interlocutore si è offeso. Che cosa hai sbagliato? «Nulla, probabilmente lui si trovava in una situazione delicata, per cui era incline a fraintendere qualsiasi cosa gli venisse detta», risponde Sara Zamperlin. «A questo punto, sganciamoci dalle recriminazioni contro noi stessi. Ricordiamoci, infatti, che siamo responsabili di ciò che diciamo, ma non del modo in cui le altre persone lo interpretano!».
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Articolo pubblicato sul n. 19 di Starbene in edicola dal 24 aprile 2018