Il racconto di Agata Giudice, 46 anni, di Catania. Testo raccolto da Nadia Nunzi
È il 2006 quando la mia vita cambia inesorabilmente. Sono un agente immobiliare di poco più di trent’anni e, come d’abitudine, mi sto recando al lavoro, completamente all’oscuro di ciò che sta per succedere. Un dissesto stradale fa sbandare la mia Vespa e finisco sull’asfalto sbattendo violentemente la schiena.
Mi trasportano d’urgenza all’ospedale, dove mi operano la sera stessa mettendomi al corrente della gravità della situazione: ho subito una lesione midollare. Dopo qualche giorno, chiedo di essere trasferita in una struttura ospedaliera specializzata e lì inizio il mio percorso riabilitativo con il supporto di mia madre e del ragazzo con cui condivido la vita da due anni. Lui mi rassicura dicendo che tutto si sistemerà, ma scelgo subito di non aggrapparmi ad alcuna speranza o illusione di tornare come prima.
Questa fredda lucidità, che mi arriva addosso e mi tiene vigile, in quel drammatico momento è la mia più grande ricchezza. È l’occhio della verità che, senza attendere, mi mostra le cose per ciò che sono e non per come io vorrei che siano. Così, quando i medici mi confermano che non potrò più camminare, sono già preparata ad accettare la mia condizione e decisa ad andare avanti nel miglior modo possibile.
Non mi sono mai sentita diversa
«Non sentirti in obbligo di restare con me», dico al mio compagno. È ciò che desidero: lasciarlo libero. Ma lui mi ama e resta. Non ha intenzione di staccarsi e, dopo otto mesi di ricovero a Imola, ritorniamo insieme a Catania, dove la mia casa al terzo piano non è più mia.
Non posso più fare le scale, non ci sono ascensori, devo trasferirmi altrove. Questa è una delle tante consapevolezze che mi mostra che niente sarà più come prima. Tuttavia non mi perdo d’animo. Sono sempre stata forte, autonoma, attiva e voglio continuare a esserlo.
So che dovrò fare molte cose in maniera differente ma posso continuare a effettuarle: questo è ciò che conta, perché è l’atteggiamento che si decide di avere a fare la differenza, anzi in certi casi ti salva. Non che tutto sia facile, i luoghi e gli spazi non sono più a mia dimensione e devo imparare nuovi modi di abitarli.
Mi scontro, poi, con l’ignoranza e la maleducazione di molte persone, ma la solidarietà di tante altre arriva ben presto a scaldarmi il cuore. E nella condivisione non mi sento né diversa né sola.
Ho trovato forza nella passione
Nel 2013 accolgo la proposta di partecipare a un progetto a livello nazionale che riguarda gli sport per disabili. Provo varie attività, dal nuoto al basket fino ad arrivare alla mia passione: la danza. Inizio con i balli di gruppo ma non mi basta, voglio fare di più, mettermi alla prova, superare i limiti, che spesso sono soltanto mentali.
Cerco, così, qualcuno disposto a condividere la mia esperienza, e dopo un primo incontro con un ballerino – interrotto per motivi di lavoro – conosco Roberto Finocchiaro, insegnante di danze caraibiche nella scuola di ballo “Centro Studio Danza RoNart Ballet”, che si mostra subito disponibile, anche se non ha mai avuto esperienze di danza di questo tipo. Ballare insieme a lui è molto emozionante e mi dà modo di dimostrare, attraverso i volteggi, che tutti possono tutto quando si hanno passione, coraggio e tanta forza di volontà.
Mi concentro sul qui e ora
Quando ballo con Roberto mi sento piena di luce, energia e gioia. Non lo faccio solo per me, per stare bene ma soprattutto per trasmettere un messaggio di forza. E quando alla fine di uno spettacolo si avvicinano le ragazzine che studiano danza e mi dicono: «Da domani andrò a lezione con uno spirito diverso e una consapevolezza nuova», so di aver mosso qualcosa dentro di loro.
A volte qualcuno mi chiede se vorrei tornare a tornare la donna di prima. Oggi sono una persona migliore, sono fiera di tutto ciò che faccio, di come affronto la quotidianità ma di certo pagherei oro per tornare indietro e riavere l’autonomia fisica. Lo desidero però solo per lo spazio di una domanda tra me e me: non penso più alla vita di prima, preferisco concentrarmi su quella di adesso, cercando di viverla meglio che posso.
Anche inventando un nuovo modo di ballare, con le braccia, con le ruote che mi permettono di fare giri e piroette, con gli sguardi ridenti che incontrano quelli del mio maestro, Roberto. E con il cuore che batte tutte le sue pulsazioni per ricordarmi che sono qui, ancora viva e piena di energia contagiosa.
Tutti ce la possono fare
Ora sono anche un membro dell’Associazione Life onlus che si prefigge di abbattere le barriere fisiche e mentali che ancora gravano sulla disabilità, attraverso l’attività fisica: handbike, nuoto, basket, danza, subacquea perché lo sport è di tutti e per tutti. Aiuta a riscoprirti, reintegrarti, socializzare, metterti in discussione. Ti fa entrare in contatto con altre persone, trarre forza anche da loro e ti fa amare la vita ancora di più.
Ritengo che sempre più palestre dovrebbero avvicinarsi a discipline per diversamente abili: è giusto che anche una persona in carrozzina possa scegliere sala, istruttore e attività come qualunque altra. Spero che un giorno, anche attraverso il mio messaggio, questo accada per vivere tutti insieme nel rispetto delle diversità.
Lo sport per andare avanti
«Dopo un trauma che porta a una disabilità grave, è fondamentale fare attività fisica», spiega Donatella Saviola, neurologa responsabile del Servizio di terapia occupazionale del centro Cardinal Ferrari del Gruppo Santo Stefano, che dal 1999 è uno dei maggiori riferimenti italiani nel settore della riabilitazione per lesioni neurologiche acquisite, con ambulatori dal Nord al Sud Italia.
«Aiuta la persona invalida ad acquistare sicurezza e a ritrovare fiducia in sé. Per tanti motivi. Innanzitutto, l’attività fisca, sia a livello ludico sia agonistico, è un metodo concreto, tangibile per riscoprire la propria forza fisica e mentale e, nel contempo, valutare le abilità motorie residue. È un invito a sfidare se stessi per testare le proprie capacità, che accresce la motivazione ad andare avanti, a trovare strade alternative per avere una vita soddisfacente e che agisce da antidepressivo contro la tentazione di lasciarsi abbattere da questa nuova condizione fisica».
Non solo, lo sport per diversamente abili permette di relazionarsi anche con persone nelle stesse condizioni. «In questi casi, è molto importante contare sugli altri», prosegue l’esperta. «Come esempio (“loro ce l’hanno fatta, ce la posso fare anch’io”), come appoggio (“ho una rete di informazioni e aiuti”), come alleati (“non sono solo a sostenere questo peso”), come complici (“possiamo farci forza l’uno con l’altro”)».
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Articolo pubblicato nel n° 8 di Starbene in edicola dal 5 febbraio 2019