Ti alzi al mattino e, appena metti il piede a terra, senti una fitta acuta al tallone? Probabilmente soffri di fascite plantare, un disturbo che il 10% delle persone manifesta almeno una volta nella vita e che rappresenta la causa del 15% delle visite ortopediche, prenotate per “dolore cronico al piede”.
A essere colpite sono soprattutto le donne “over 50”, specie se dedite ad attività sportive che sollecitano la fascia plantare come la corsa e lo step. Di che cosa si tratta? Quali sono le cause e i trattamenti più innovativi ed efficaci? Ce ne parla Sandro Giannini, professore emerito di ortopedia all’università di Bologna.
Come nasce la fascite plantare
«Anche se il suffisso in “ite” porta facilmente a etichettare la fascite plantare come un’infiammazione, in realtà insorge come risultato di una degenerazione della fascia plantare. Ovvero di quella fascia fibrosa di tessuto connettivo che scorre sotto la pianta del piede e che unisce la parte inferiore del calcagno alle dita dei piedi», precisa il professor Giannini.
«Questa fascia fibrosa, che è composta da tre bande, interna, intermedia (la più estesa) e laterale, costituisce la corda dell’arco plantare e contribuisce alla sua elasticità. Il suo compito è, infatti, quello di ridurre il carico durante la stazione eretta (in piedi, ammortizza il peso del corpo), la deambulazione, la corsa e il salto. Per meglio svolgere questo importante lavoro, dal calcagno si allarga e si estende progressivamente a ventaglio fino alle cinque dita».
Il dolore acuto che caratterizza la fascite, e che impedisce persino di camminare, si localizza soprattutto a livello del tallone (per questo si parla di tallonite), nel punto di inserzione della fascia plantare alla parte inferiore del calcagno. L’infiammazione vera e propria non riguarda la fascia, che è dolente a causa di un processo degenerativo, bensì le parti molli circostanti, come le inserzioni dei muscoli attraverso i tendini.
Le cause sono molteplici: dall’obesità all’uso prolungato di calzature inadatte, dai difetti anatomici del piede alla limitata mobilità della caviglia. Se il cosiddetto movimento di dorsiflessione della caviglia è poco ampio, infatti, la sollecitazione della fascia plantare aumenta e questa va più facilmente incontro a degenerazione.
Fascite plantare: l'importanza di una diagnosi corretta
Ai primi cenni di dolore al tallone e alla pianta del piede occorre rivolgersi subito a un bravo ortopedico che deve, innanziutto, fare una precisa diagnosi di fascite. Ovvero poter escludere tutte le altre possibili cause che provocano sintomi così invalidanti.
«Lo specialista deve verificare che non ci siano deformità a carico del ginocchio o del piede che possono indurre stress sulla fascia plantare, e che non vi sia una compressione dei nervi e dei tendini a livello della regione malleolare interna. Così come deve accertarsi che il paziente non soffra di malattie reumatiche come le spondiloartriti sieronegative, tipo l’artrite psoriasica. Altre cause del dolore localizzato, che possono essere confuse con la fascite plantare, sono le fratture da stress del calcagno, per microtraumi ripetuti (pensiamo ai runner), lo scarso cuscinetto adiposo posto sotto il tallone o le varie patologie a carico del ginocchio, i tumori ossei o delle parti molli», spiega ancora il professor Sandro Giannini.
«La visita deve comprendere un’accurata anamnesi, tesa a raccogliere più informazioni possibili sul dolore riferito dal paziente: quando è insorto? Che caratteristiche ha? Aumenta a letto o in piedi? Si acutizza dopo un periodo di immobilità? Segue l’esame obiettivo che consiste nel toccare dei punti precisi corrispondenti alla fascia, ai nervi, ai tendini e ai muscoli perimalleolari. Se premendo un punto situato circa 5 cm più avanti del bordo posteriore del tallone, il paziente riferisce un’acutizzazione del dolore, si tratta di fascite plantare. Quanto agli esami strumentali, può essere utile fare una radiografia in proiezione laterale del piede sotto carico. Nel 50% dei casi, le lastre evidenziano la formazione della cosiddetta spina calcaneare, cioè un’escrescenza ossea a forma di becco che viene spesso erroneamente indicata come la responsabile della sintomatologia dolorosa. In realtà non c’entra nulla. La spina calcaneare non interessa la fascia, ma si forma come conseguenza della degenerazione delle fibre elastiche del tendine flessore breve, nel punto di inserzione sul calcagno».
Le cause più comuni
Ecco le cause più comuni del dolore ai piedi:
• Sovrappeso. I chili di troppo di chi è in sovrappeso o addirittura obeso incidono sulla degenerazione della fascia plantare.
• Scarpe basse o alte. Le ballerine e le infradito ma anche le calzature con tacchi molto alti possono scatenare la fascite.
• Attività intensa. Le asana in punta di piedi, così come lo sport intenso non compensato dallo stretching favoriscono la fascite.
• Anatomia del piede. Chi ha il piede piatto oppure cavo (cioè con poca o troppa volta plantare) così come chi ha una scarsa mobilità della caviglia è più a rischio di fascite.
FASCITE PLANTARE, LE TERAPIE
- 1. Terapie, primo step
La prima cura da mettere in atto consiste nel riposo, riducendo il carico sull’arto, nell’assumere farmaci antinfiammatori e nel seguire un programma di riabilitazione con specifici esercizi di stretching consigliati dallo specialista. Può rivelarsi utile anche un massaggio profondo della pianta del piede, ad opera di un esperto massofisioterapista, e calzare scarpe con un tacco di circa due centimetri per ridurre la tensione sulla fascia.
Se il male non passa si può ricorrere alla terapia infiltrativa, con una o due iniezioni di corticosteroidi direttamente nella sede del dolore. Anche seguire un ciclo di terapie fisiche può apportare benefici.
Ne esistono diverse: le più efficaci sono la laserterapia antalgica con laser ad alta potenza (come il Neodimio-yag e il C02) e la tecarterapia. Quest’ultima sfrutta il principio fisico del condensatore (circuito RC, resistenza elettrica/condensatore) e prevede l’applicazione di due piastre, la cui differenza di potenziale elettrico le carica una positivamente e l’altra negativamente. Il fisioterapista massaggia il piede con una piastra mentre l’altra resta fissa, sulla parte opposta alla cute da trattare. Il campo elettromagnetico che si sviluppa tra i due poli, trasferisce energia ai tessuti in sofferenza all’interno dei quali si forma un benefico calore. Questo attiva i processi di riparazione, soprattutto se si lavora in modalità capacitiva (cioè tramite elettroni isolati elettricamente), più efficace per la fascite plantare rispetto a quella resistiva.
- Terapie, secondo step
«Se nonostante il primo percorso terapeutico il dolore persiste per diverse settimane occorre mettere in campo altre soluzioni» puntualizza il professor Giannini.
«Per potenziare l’effetto di farmaci, esercizi e terapie strumentali, si può ricorrere al bendaggio funzionale (il cosiddetto taping) e all’uso di un tutore ortopedico da indossare durante la notte: mantenendo il piede in uno stato di flessione dorsale, sottopone la fascia plantare a un benefico stretching mentre si dorme. Caso per caso, l’ortopedico valuterà se procedere a delle infiltrazioni locali di acido ialuronico, per togliere rigidità alla fascia dura e contratta, o sottoporre il paziente alle innovative tecniche di medicina rigenerativa. Mi riferisco soprattutto alla PRP, cioè l’iniezione di un concentrato piastrinico estratto da un campione di sangue del paziente, e alle infiltrazioni di cellule staminali estratte sempre dal grasso o dall’osso del paziente. Entrambi i “farmaci naturali”, di derivazione autologa, sono ricchi di fattori di crescita, aggregati piastrinici e, appunto, cellule staminali che hanno un potenziale rigenerativo enorme sui tessuti danneggiati in sofferenza».
- Terapie, terzo step
Vi sono però dei casi in cui la fascite plantare non rappresenta un incidente di percorso passeggero dovuto magari ai troppi chilometri macinati con le scarpe da runner. Il dolore al tallone diventa cronico, con un impatto negativo sulla qualità della vita. «Se le terapie conservative non hanno dato i risultati sperati, si programma un intervento chirurgico mininvasivo che può essere eseguito in day-hospital», puntualizza il professor Sandro Giannini.
«Grazie alla tecnica percutanea, che non prevede più grosse incisioni, con una sottilissima lama si pratica un forellino sul tallone per andare a a staccare, parzialmente o totalmente, la fascia plantare dalla sua inserzione. Altre tecniche, sempre mininvasive, prevedono un’incisione di un centimetro, per permettere al chirurgo ortopedico di poter vedere direttamente l’inserzione della fascia, oppure l’utilizzo della tecnica artroscopica, con due mini incisioni. La fascia sezionata, come un elastico, tende a retrarsi, lasciando uno spazio che con il tempo si riempie con una cicatrice. In pratica, la fascia viene allungata».
L’intervento è risolutivo in una percentuale altissima, anche se ha una ripresa non rapida. Occorrono, infatti, due mesi, durante i quali si è accompagnati in un percorso riabilitativo ad hoc, per tornare a correre come prima, più di prima.
In questa seconda fase, può essere utile anche programmare un breve ciclo di onde d’urto radiali. Vengono prodotte da uno speciale manipolo a forma di pistola: all’interno della canna un proiettile di acciaio viene lanciato mediante aria compressa contro un trasduttore metallico posto come tappo della pistola. Dalla collisione si genera un’onda d’urto che si diffonde radialmente sulla superficie plantare, portando a un aumento della vascolarizzazione. Fatto che causa una riduzione dell’infiammazione e una spinta biologica all’autoriparazione.
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Articolo pubblicato sul numero n° 8 di Starbene in edicola dal 13 luglio 2021