Sovrappeso, obesità, lunghe permanenze in piedi, vizi posturali, mancanza di attività fisica, familiarità per problemi circolatori, età superiore ai 45-50 anni e sesso femminile. Sono questi i principali fattori di rischio per l’insufficienza venosa, una condizione patologica dovuta a un difficoltoso ritorno del sangue verso il cuore.
«Dovendo vincere la forza di gravità che spinge naturalmente verso il basso, il flusso sanguigno verso l’alto è consentito da una lunga serie di valvole che lavorano come finestre a battenti: si aprono per consentire il passaggio del sangue verso il cuore e poi si chiudono per impedirgli di tornare indietro», spiega il dottor Gianluigi Rosi, angiologo presso il GVM - Anthea Hospital di Bari. «Se queste valvole non hanno una buona tenuta, il sangue tende a ristagnare nelle gambe, dilatando le vene e provocando una condizione di gonfiore noto come edema, che va indagato dal medico per arrivare a una diagnosi differenziale escludendo altre cause, come un problema cardiaco o renale».
Cos’è l’insufficienza venosa
Gli arti inferiori sono dotati di un doppio sistema venoso: quello superficiale (formato principalmente dalla grande safena e dalla piccola safena), che drena circa un terzo del sangue di ritorno verso il cuore; quello profondo (vene iliaca, femorale, poplitea e femorale profonda), che drena gli altri due terzi.
«L’insufficienza venosa coinvolge il circolo superficiale, dove mediamente è presente una valvola ogni 10-12 centimetri, malgrado le vene siano soggette a numerose varianti anatomiche, differenti da persona a persona». Se non adeguatamente trattata, la situazione può degenerare e trasformarsi in una patologia cronica, portando alla formazione di vene varicose o anche alla trombosi venosa superficiale.
Quali sono le cause dell'insufficienza venosa
A favorire l’insufficienza venosa sono le attività lavorative che costringono a trascorrere molto tempo in piedi oppure che espongono a fonti di calore (come panificatori o parrucchieri), il sovrappeso e l’obesità, la scarsa attività fisica, l’abitudine di indossare tacchi alti e indumenti troppo stretti sugli arti inferiori o sull’addome, che possono impedire una corretta circolazione.
«Anche la sedentarietà può predisporre al problema, soprattutto se teniamo spesso le gambe accavallate: nelle professioni informatizzate ad esempio, dove la permanenza davanti al pc è prolungata, il consiglio è quello di sedersi sempre con le gambe parallele, magari appoggiando i piedi su una pedana bassa», suggerisce il dottor Rosi. «D’estate, invece, evitiamo le lunghe esposizioni al sole o per lo meno bagnamoci in mare, piscina o con degli spray rinfrescanti almeno ogni quarto d’ora».
Quali sono i sintomi dell'insufficienza venosa
A insospettirci deve essere un senso di pesantezza a livello di arti inferiori, soprattutto a fine giornata, che nel tempo può associarsi a prurito (prima notturno, progressivamente anche diurno): «Quest’ultimo può evolvere in eczema e a diverse modificazioni visibili, perché la pelle può diventare secca e squamosa oppure umida e appiccicosa, portando alla formazione di macchie marroni che, in alcuni casi, si allargano ai tessuti circostanti.
Nei casi più gravi possono comparire anche ulcerazioni, che hanno una guarigione lenta e presentano un elevato rischio di infezione, ma la complicanza più grave è sicuramente la formazione di un coagulo di sangue, detto trombo, che ostruisce la vena e provoca una trombosi venosa superficiale, riconoscibile dall’indurimento e dall’arrossamento del tratto varicoso, oltre che da calore e dolore».
Come si arriva alla diagnosi
Per confermare la diagnosi di insufficienza venosa, oltre all’esame obiettivo da parte dello specialista che ispeziona e palpa gli arti inferiori, è necessario sottoporsi all’ecocolordoppler, un esame non invasivo e simile a un’ecografia che, grazie all’utilizzo degli ultrasuoni, consente di visualizzare le vene fornendo informazioni sulla forma e sul flusso sanguigno al loro interno. A quel punto, è possibile decidere il trattamento migliore, anche se il primo passo è sempre l’elastocompressione:
«Con l’aiuto del medico è importante scegliere le migliori calze a compressione graduata, che non sono tutte uguali: ci sono quelle terapeutiche, necessarie quando sono già presenti problemi circolatori, e quelle preventive, indicate per i soggetti a rischio. Sulla confezione è indicata la pressione esercitata, espressa in millimetri di mercurio, mmHg, che deve essere massima alla caviglia e poi diminuire man mano che si sale verso la coscia: questo impedisce alle vene di dilatarsi e sfiancarsi, mantenendo la loro efficienza».
Come si cura l'insufficienza venosa
L’elastocompressione pesa per il 70% sul successo terapeutico, per cui è fondamentale. Accanto, il medico può consigliare qualche integratore (nutraceutico) o farmaco (flebotonico) di supporto, per esempio a base di diosmina ed esperidina nel primo caso, mesoglicano o sulodexide nel secondo caso, che svolgono un’azione endoteliale, cioè riducono l’infiammazione delle pareti venose e aiutano le vene a non aggravarsi.
«Talvolta, però, può comunque rendersi necessario intervenire chirurgicamente. Oggi sono disponibili modalità di intervento mininvasive, che rispetto all’approccio tradizionale non prevedono l’asportazione completa della vena varicosa: questa, infatti, può essere de-funzionalizzata, cioè privata delle sue funzioni, attraverso la chiusura, che può essere indotta tramite calore, per esempio con il laser, oppure con l’iniezione di sostanze chimiche sclerosanti.
Nell’ultimo caso si parla di scleromousse ecoguidata, che stimola la “chiusura” del tratto malato, in modo che il sangue non refluisca più al suo interno ma trovi vie alternative per raggiungere il cuore, attraverso gli altri molteplici canali venosi della gamba». Le modalità mininvasive consentono tempi di degenza ridotti, una veloce ripresa delle attività quotidiane e un minore dolore post-operatorio, ma ovviamente nessun intervento è risolutivo: «La causa che ha determinato l’insufficienza venosa non può essere eliminata, per cui agisce nel tempo su altre vene, facendole ammalare. In altre parole, ci si può curare, ma non si può guarire. Dopo l’operazione, dunque, continua a essere fondamentale l’elastocompressione, così come il mantenimento di un corretto stile di vita», conclude il dottor Rosi.
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