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Perché il cervello ama la musica

Le melodie mantengono la mente brillante: aumentano le connessioni neuronali e stimolano le capacità sensomotorie. E, se la frequenza è lenta, inducono uno stato di relax profondo

Foto: iStock



Tribale o classica, pop o rap, la musica ha sempre accompagnato l’uomo fin dalla preistoria. Perché è in grado di far vibrare delle corde nel profondo della psiche. Accende emozioni, rallegra, rattrista, rilassa, energizza, fa sognare, ballare, rievocare momenti clou della nostra vita. E riesce a muovere delle pedine segrete nella scacchiera del nostro cervello.

Com’è possibile tutto questo? Ce lo spiega Alice Mado Proverbio, professore associato di neuroscienze al Dipartimento di psicologia dell’Università di Milano Bicocca e autrice del libro Neuroscienze cognitive della Musica (Zanichelli, 27 €). Un viaggio affascinante che fa luce sul complesso rapporto tra musica, mente e cervello. La musica parla un linguaggio universale.


Come è possibile?

«Perché siamo geneticamente programmati a riconoscere il “colore emotivo” dei vocalizzi emessi dagli uomini e dagli animali. Anche in assenza di parole, capiamo subito se stiamo ascoltando un grido di dolore o un gemito di piacere, così come intuiamo al volo se il miagolio del nostro gatto è dovuto a sentimenti di sofferenza o al contrario di appagamento.

Ascoltando un brano musicale, ne riconosciamo istintivamente l’emozione di fondo perché il cervello utilizza gli stessi meccanismi neuronali per estrarre il contenuto emotivo dalle vocalizzazioni o dalla musica. Un lavoro di estrazione e confronto che viene svolto dalla corteccia temporale superiore. Ecco dunque perché le canzoni con intervalli in tonalità minore possono suscitare malinconia, mentre quelle in tonalità maggiore ci fanno sentire più energici».


A che cosa è dovuto l’effetto rilassante di alcune melodie?

«È stato rilevato che l’attività bioelettrica del cervello, osservata attraverso le oscillazioni di ritmo dell’elettroencefalogramma, tende a sincronizzarsi con la frequenza della stimolazione uditiva (fenomeno chiamato neuronal entrainment to the beat).

Le musiche che offrono stimoli sonori a ritmo lento come una ninna nanna, o un adagio di Mozart, inducono un rallentamento dell’attività biolelettrica, e quindi rilassano e conciliano il sonno. Le stimolazioni sonore a ritmo rapido (come la musica tecno), invece, fanno aumentare la frequenza delle onde cerebrali e hanno quindi l’effetto opposto».


È vero che la musica mantiene giovane il cervello?

«Assolutamente sì. Iscriversi a un coro, a un corso di musica o suonare uno strumento è un ottimo mezzo per mantenere giovane il cervello. Perché grazie alla pratica musicale aumentano le connessioni sinaptiche tra i neuroni e si stimolano le regioni uditive e sensomotorie del cervello, oltre ai gangli della base, al cervelletto e al corpo calloso».


Quali sono le malattie in cui la terapia con la musica è più efficace?

«L’ascolto e la pratica musicale costituiscono un valido alleato nella cura di diverse patologie: dall’autismo alla dislessia, dai disturbi dell’apprendimento ai problemi motori, dalla balbuzie all’afasia. Prezioso, poi, è il contributo nella terapia delle malattie neurodegenerative tipiche degli anziani, come il morbo d’Alzheimer e di Parkinson che minano la cognizione e il controllo dei movimenti. Nel momento in cui il cosiddetto “circuito interno del movimento”, guidato dalla volontà, viene compromesso dalla malattia si può attivare il “circuito esterno”: una stimolazione polisensoriale effettuata con luci o suoni.

Con una musica cadenzata, ad esempio, si possono indurre gli anziani con il Parkinson a muovere dei passi, altrimenti incerti o bloccati. Mentre i malati di Alzheimer traggono giovamento dal riascoltare le canzoni della gioventù, che accendono la “memoria episodica”. Risvegliati dalla musica (le canzoni degli alpini o del primo amore), riafforano alla mente i ricordi autobiografici, momenti di paura o di tenerezza. Così si riesce a rallentare la perdita di memoria e a mantenere il proprio senso di identità».




Da che cosa dipende il talento musicale

Molti pensano che chi ha un’inclinazione per la musica debba ringraziare il proprio patrimonio genetico, ma non è esattamente così. «È vero che sono stati individuati dei geni, come il GATA2 e il PCDH7, che regolano la codifica dell’altezza dei suoni. Ma questo ha a che fare solo con la percezione sonora», spiega la professoressa Alice Mado Proverbio.

«Numerosissimi, poi, sono i geni coinvolti nella capacità di suonare uno strumento musicale: quelli che regolano la capacità motoria, la coordinazione, l’attenzione, la sensibilità al ritmo, il controllo e la pianificazione dell’azione, la memoria e l’eccitabilità sensoriale. Tutte facoltà che variano da individuo a individuo. Gli studi in materia, però, dimostrano che l’attitudine individuale conta meno dell’ambiente in cui un bambino cresce. Se viene educato fin da piccolo al mondo dei suoni e se gli viene data un’educazione musicale può sviluppare abilità musicali anche in tenera età».



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Articolo pubblicato nel n° 28 di Starbene in edicola dal 25 giugno 2019

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