di Katia Vignoli, psicologa
Ce le ricorderemo a lungo le lacrime che il Presidente Obama il 5 gennaio 2016 si è asciugato davanti al mondo intero, mentre commemorava le vittime delle sparatorie in America (30 mila morti ogni anno) e annunciava nuove misure sulla vendita e sul controllo di armi.
Ce le ricorderemo perché andavano al di là del potere e del denaro. L’uomo più importante del mondo si è commosso, proprio come potrebbe fare una donna: erano lacrime di empatia e di moralità, portavano con sé il dolore di un popolo, di un mondo, di una ferita aperta. E in quel momento il Presidente se ne faceva portavoce in prima persona.
I detrattori di Obama hanno detto che un uomo come lui non doveva piangere come un bambino. Ma a me il suo dispiacere sembra più una presa di coscienza. Come dire che è arrivato il momento di agire, che non si può più aspettare. Perché quando sono vere, quando sgorgano naturalmente, le lacrime indicano qualcosa di urgente. Lo ha dimostrato anche il viso del Presidente, per nulla costernato, ma teso a comunicare che ciò che stava dicendo in quel momento era necessario. E che tutta la sua persona era lì, presente, che davanti agli Americani non c'era solo lo statista o il politico.
Lacrime accorate, insomma, che arrivavano appunto dal cuore ma non erano sconfitte dalla ragione. Anzi, proprio nella ragione trovavano maggiore forza rispetto alla ragione del cuore. E quando cervello e sentimento vanno insieme, il messaggio è senz’altro più efficace.
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