Secondo i dati del Ministero dell’istruzione lo scorso anno più di 14.000 ragazzi hanno abbandonato la scuola (lo 0,8 % degli studenti, con picchi oltre l’1% al Sud). E, stando ai rilevamenti Eurostat (l’ufficio statistico dell’Ue), il nostro è il Paese con il maggior numero di Neet (Not in education, employment or training, cioè giovani che non studiano più, non hanno trovato un’occupazione e non sono in un periodo di formazione): il 25,7 % contro 14,3 della media europea.
Tra le ragioni, una scuola in evidente difficoltà. Che non riesce a includere, motivare e appassionare gli studenti. Daniele Novara, uno dei più autorevoli pedagogisti italiani, nel suo nuovo libro Cambiare la scuola si può (Bur, 15 €), propone “Un nuovo metodo per insegnanti e genitori, per un’educazione finalmente efficace”. Lo abbiamo intervistato.
Cos’ha la scuola italiana che non va?
«Non è bastato introdurre la Lim, il Cooperative Learning, l’alternanza scuola-lavoro, la nostra scuola resta un luogo in cui l’insegnamento è concepito come un’operazione di “travaso” di conoscenze dall’insegnante agli alunni, visti come contenitori da riempire. Invece è solo stimolando i processi di apprendimento, anche grazie alle scoperte delle neuroscienze, che si possono trasformare gli anni di scuola nell’inizio formidabile di un percorso di studio e di crescita».
Dal 2000 a oggi si sono susseguite sei riforme della scuola. Davvero ne serve un’altra?
«Nessuna riforma. Penso a un metodo che, a costo zero, permette di passare dalla scuola del controllo a quella dell’apprendimento, in cui il docente non ha un ruolo centrale: il focus passa sugli alunni che lavorano insieme, stimolati attraverso la condivisione, lo scambio, l’imitazione. E il docente diventa il regista che, sceso dalla cattedra, osserva, ascolta e crea le condizioni migliori per l’apprendimento».
Ma gli insegnanti hanno già tante difficoltà: alunni stranieri, Dsa, Bes, genitori arrabbiati…
«Il cambiamento va preparato. Ma i primi a esserne gratificati saranno proprio gli insegnanti, che potranno fare il loro lavoro in modo più appassionante e gratificante. Un esempio? In molti, come me, si chiedono se i voti, così come sono concepiti oggi, abbiano senso».
Lei vorrebbe eliminare i voti?
«Il metodo matematico tradizionale si basa sull’idea di standardizzare la valutazione: se hai fatto un tot di errori prendi un voto, se ne hai fatti meno ne prendi uno più alto. In seconda elementare si può prendere 2 se si sbaglia a contrassegnare 8 caselle su 10. Ma che senso ha? Cosa si sta insegnando a quel bambino dandogli 2? E che cosa possono capire da questo i genitori? Se sono un po’ ansiosi andranno in crisi o cominceranno ad attaccare l’insegnante nelle terribili chat di classe. C’è invece un’altra valutazione, quella evolutiva, che non può essere uguale per tutti. Si basa sul presupposto che ciascuno di noi impara in maniera graduale, con momenti di blocco, salti in avanti, rallentamenti. Ma più importante del giudizio è il lavoro in classe: i bambini non imparano dal fiume di parole di un insegnante che chiede silenzio, immobilità, e tempi di attenzione che sarebbero insostenibili per un adulto. I bambini imparano dai compagni, con le domande, gli errori, i laboratori e, non dimentichiamolo, muovendosi».
E i compiti? Secondo lei fanno bene o male?
«Non esistono norme ministeriali che obblighino gli insegnanti ad assegnare i compiti. Con moderazione, possono aiutare a rafforzare la comprensione di un argomento trattato in classe, il problema è che, ormai, sono diventati la prassi: si rischia di trasformare la famiglia in un doposcuola, una cosa priva di senso. E non si tiene conto del bisogno di giocare dei bambini».
Il parere della preside
Nuovi voti, niente (o pochissimi) compiti a casa, no alle note sul diario e perfino alla campanella: il metodo proposto da Novara mette in discussioni abitudini consolidate. E, allora, cosa ne pensa chi la scuola la conosce bene dall’interno?
«Riflettere sulle cosiddette pratiche inerziali, le consuetudini che non sappiamo neppure da dove abbiano origine è sicuramente utile. Abbandonarle, però, è un’altra faccenda perché richiede prima di tutto il cambiamento degli insegnanti e dei dirigenti, processo non facile», commenta Silvana Loiero, per 40 anni dirigente scolastica e oggi direttore della rivista La vita scolastica (giuntiscuola.it).
«Per cambiare le cose, servono insegnanti preparati e appassionati, ma stiamo parlando di un esercito di 730mila persone e con un’età media di 54 anni. Come spiegare, per esempio, a un’insegnante storica che le note sul diario sono inutili e inefficaci?
I ragazzi, spesso per nulla intimoriti, le subiscono passivamente, le famiglie in genere hanno due reazioni: in automatico puniscono il figlio oppure litigano con l’insegnante. E allora ben venga chi, come Novara, le mette in discussione e propone di affrontare le cose in classe e, solo quando è necessario, chiedere un incontro ai genitori. Ma questo può avvenire solo in un sistema scolastico completamente ripensato. La strada mi sembra lunga».
In Italia si studia di più
Siamo agli ultimi posti per rendimento scolastico (25esima posizione su 40 sistemi scolastici analizzati dal prestigioso istituto di ricerca inglese The Economist Intelligence Unit) e per percentuale di laureati (il 18% contro il 36 della media Ocse).
Eppure siamo al primo per quantità di ore passate a scuola: 40 ore settimanali per 220 giorni l’anno. In Finlandia, al primo posto per livello di preparazione scolastica, oltre a vantare un rapporto alunni insegnanti di 10/1, lezioni di 45 minuti, al termine dei quali i bambini devono uscire in cortile per 15 minuti, si sta in classe solo 4 ore da lunedì a venerdì fino a 10 anni, poi si passa a 6 ore al giorno, che includono intervalli e pranzo. Al pomeriggio e al sabato, niente scuola.
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Articolo pubblicato sul n. 47 di Starbene in edicola dal 6/11/2018