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Solitudine, come uscire dall’isolamento e dalle relazioni false

La soluzione per sconfiggere l’isolamento non è la spasmodica ricerca di una vicinanza forzata o di una socialità vuota. È un percorso per ritrovare noi stessi che ci permette di stare bene con gli altri. In coppia, in famiglia e con gli amici



La solitudine è uno stato mentale che l’OMS definisce un tema di salute pubblica globale. Impariamo a conoscerla e a vincerla insieme a Giorgio Nardone, psicologo e psicoterapeuta e cofondatore del centro di Terapia Strategica di Arezzo. I suoi libri, tra cui La solitudine, L’arte del cambiamento, Psicotrappole, sono tradotti in numerose lingue.


Non si fa che parlare della solitudine come il male supremo della nostra società, è vero?

In sé non è uno stato che deve essere per forza denigrato. Può essere una scelta: la necessità di appartarsi e di trovare un momento, qualche ora o una giornata per conto proprio, come un tempo facevano i filosofi o gli asceti, è un’opzione gratificante per ognuno di noi.

Si dice per esempio che Kant abbia scelto di rimanere single perché una moglie sarebbe stata di ostacolo alla sua elevazione spirituale. E questa è una solitudine nutriente.


Ne abbiamo bisogno tutti quindi?

Assolutamente, perché chi non sa stare da solo non è in grado di costruire relazioni sane: sarà sempre dipendente dagli altri (un partner, gli amici, il gruppo sociale di riferimento, i colleghi) e conoscerà molto poco se stesso, le proprie fragilità e i propri punti di forza, requisiti essenziali per vivere in equilibrio con il mondo intorno a noi, per dare (e ricevere) il meglio.

Esiste poi una solitudine feroce che affligge chi cerca compagnia in modo forzato. Queste persone attivano una sorta di prostituzione relazionale molto nociva. Sono i cosiddetti “ipersociali”, persone sempre disponibili, che si vendono (o svendono) alla ricerca di un consenso continuo che li obbliga a nascondere la loro parte più autentica e così facendo si isolano sempre più dalle relazioni importanti.


Diventano perciò causa del loro isolamento?

In parte, sì. Perché quando non ci sentiamo visti né riconosciuti dagli altri per quello che siamo realmente ma recitiamo costantemente una parte, la rappresentazione di noi stessi che abbiamo costruito per il mondo esterno, il senso di solitudine diventa ancora più profondo. Non veniamo visti e apprezzati perché non ci vediamo. Ci buttiamo in rapporti falsati, ci nutriamo di like virtuali, senza capire che in questo modo costruiamo solitudine, giorno dopo giorno.

Il fenomeno del cybersex parla chiaro. Senza la prossemica, la presenza, il corpo, sembra tutto più facile. Niente rischi, nessuna paura di un rifiuto, nessun coinvolgimento. E quando ci stufiamo, il ghosting è la soluzione perfetta. Con un clic, facciamo sparire l’altro. Ma tutto questo ci soddisfa davvero? Per niente. Non fa che aumentare il nostro senso di lontananza dal prossimo.


È tutta colpa di Internet?

Assolutamente no. Demonizzare l’universo digitale non solo non ci serve, è dannoso perché non possiamo coglierne le opportunità. La Rete è uno strumento vincente come primo approccio, crea l’occasione appunto. Da lì però è importante mettere il piede fuori di casa, passare dal virtuale al reale, re-imparare a mettersi in gioco, a rischiare, magari a fallire ma riconnettendoci con il corpo, da un lato.

Dall’altro, occorre lavorare con uno psicoterapeuta su quel Sé sconosciuto che è la nostra parte fragile e bisognosa, che deve uscire allo scoperto e potersi esprimere. Serve una ristrutturazione strategica per far emergere le nostre emozioni primarie. Anche a costo di rompere rapporti di lunga data per farne fiorire altri, più genuini e senza filtri.


E se la solitudine non è frutto di una causa endogena ma esterna?

In questo caso è una delle sofferenze più acute che esistono. Se è derivata da un lutto, una perdita, un cambiamento di stato, può generare molto dolore. Del resto, la stragrande maggioranza delle psicopatologie più severe sono connotate dalla solitudine, come la depressione e gli stati ansiosi.


C’è anche una ricaduta fisiologica dell’isolamento?

Certo, la solitudine può trasformarsi in un dolore “fisico”. Chi è solo corre un maggior rischio di incorrere in disturbi psicosomatici come l’emicrania, il mal di schiena o la psoriasi che colpisce la pelle o di sviluppare ipertensione, malattie cardiovascolari o un aumento della proteina C reattiva, che è un indice di infiammazione dell’organismo.


Quale strategia vincente si può mettere in atto?

È necessario smettere di andare controvento. Occorre guardare la solitudine a quattr’occhi, accettarla e cambiare atteggiamento mentale. Chi è solo spesso si sente escluso, rifiutato dagli altri. Le frasi più comuni di chi ne soffre sono: “Nessuno mi cerca”, “Se muoio nessuno se ne accorge”, “Sono sempre io a fare il primo passo per vedere qualcuno” e questi pensieri diventano vere e proprie fissazioni, dove noi per primi ci autosabotiamo chiudendoci in casa. Un esempio classico è sviluppare delle manie.

C’è chi diventa ossessivo della pulizia e sfugge alla solitudine con l’aspirapolvere in mano. Se poi arriva un amico, ecco che viene visto come un potenziale portatore di virus e batteri. E qui scatta l’autosabotaggio: più mi sento sola, più mi dispero, più metto in atto un comportamento disfunzionale (pulisco ossessivamente), più mi isolo. In questo modo la patologia diventa difensiva. Ho talmente bisogno degli altri da essere terrorizzata dal rifiuto: meglio gettarsi a capofitto nella solitudine.


Si può “guarire”?

Certo. Le nostre capacità sociali vanno allenate come i nostri muscoli. Quando sono atrofizzati, anche la nostra voglia dell’altro, del contatto, della vicinanza appassisce. Bisogna riprendere confidenza con chi ci sta intorno, e paradossalmente all’inizio può essere più facile con gli estranei. Il primo passo è tornare a sorridere incontrando il prossimo. Si tratta di attivare i neuroni specchio. Una piccola reazione a catena che crea grandissimi effetti.

Fare una prova è semplicissimo: esci e, salutando, sfoderi un sorriso smagliante alla tua vicina, al barista, al parrucchiere, al tuo collega musone. La risposta, contraccambiata, sarà immediata. Si inizia a piccoli passi: da un sorriso a un saluto, da un cenno a un’occhiata furtiva fino a una chiacchierata. Via via la nostra socialità si irrobustisce, la socievolezza torna a essere un piacere e non un bisogno.

E riusciamo a rimettere in moto la reciprocità: frequentare gruppi, iscriversi a nuovi corsi, rivalutare vecchie relazioni non più coltivate e aprirsi al nuovo. In questo modo si elimina l’autosvalutazione e si ripara l’autostima, si re-instaura la fiducia e si promuove il desiderio dell’altro.


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