Parlare di soldi è come parlare di noi stessi, con tutte le definizioni e le sfumature del caso. Mentre nessun economista ha ancora saputo rispondere con pienezza di contenuti alla domanda “cos’è esattamente il denaro?”, sono sempre più in forza gli studi scientifici che dimostrano il legame intrapersonale e interpersonale tra uomo e quattrini. Qui, bisogna essere espliciti, e non farci influenzare dalla paura di apparire fuori luogo o materiali: il denaro non è solo un oggetto al servizio del benessere individuale e collettivo, ma anche una relazione più profonda e pervasiva che ci tratteggia, sia come persone sia nei rapporti con gli altri, nel senso più ampio della parola.
Il collegamento tra beni mobili e immobili e traiettorie di vita è instabile e variabile nella forma, non possiamo certo dire che le nostre abitudini, esigenze, aspirazioni finanziarie siano le stesse di quelle dei nostri genitori, visto che l’uso della moneta riflette il contesto storico, culturale, economico e materiale in cui viene utilizzata. Ma è fuori discussione che in ogni ambiente ed epoca il suo riflesso psicologico è sempre presente, come spiega Edoado Lozza, docente di psicologia economica all’Università Cattolica di Milano, nel suo recente libro Psicologia del denaro: un approccio storico-genetico (Vita e Pensiero). Con lui abbiamo parlato degli effetti attuali di questo legame.
Che cosa c’entra il denaro con la psicologia?
C’entra, perché la psicologia ha evidenziato, soprattutto negli ultimi anni, come il denaro possa sortire degli esiti anche imprevedibili e sorprendenti nei nostri comportamenti e vissuti quotidiani. Lo studio della psiche, quindi, ha identificato tutta una serie di meccanismi che entrano in gioco quando parliamo o maneggiamo banconote.
In che modo il denaro ci definisce?
Il denaro non può essere considerato uno strumento neutrale, dal momento che suscita in noi tutta una serie di emozioni, anche profonde, che la psicologia ha messo in luce. In svariate occasioni, infatti, smette di essere uno strumento al servizio del benessere individuale e collettivo per diventare un fine che ci assorbe e ci pervade. Altre volte si trasforma in una passione incontrollabile. Dall’altra parte, poi, quando pensiamo ai soldi, spesso siamo vittime di vere e proprie trappole mentali, di bias cognitivi che non ci fanno fare la scelta più razionale.
Quando non facciamo grandi affari?
In diverse situazioni. Un esempio per tutti: compriamo qualcosa di cui non abbiamo per niente bisogno solo perché è in sconto. Ma il prezzo ribassato è un incentivo, non la motivazione all’acquisto, dice il principio di massimizzazione dell’economia. Altro inghippo psichico: siamo ingolositi solo dal risparmio che pensiamo di ottenere (questa cosa ora costa 80 invece di 100), però non ci chiediamo mai se vale effettivamente la cifra richiesta. Continuando, l’irrazionalità ci porta anche a non essere contenti di un aumento di stipendio, se lo consideriamo troppo poco per noi. Però, la teoria economica dice che un qualsiasi scatto ci deve fare piacere, è pur sempre un guadagno in più!
I quattrini modificano anche il nostro modo di ragionare?
In parte sì. Alcune ricerche hanno rilevato che anche solo pensare ai soldi ci rende un po’ più egoisti e indifferenti al prossimo, più orientati al compito professionale e meno alle relazioni. Il denaro, infatti, fa scattare in noi una mentalità da homo economicus, freddo e calcolatore che soppesa bene costi e benefici, ed è fondamentalmente individualista. Un’altra pressione mentale deriva dalla scarsità di mezzi: avere risorse ridotte, in molti casi, può peggiorare le performance mentali. Siamo, cioè, meno abili a fare le scelte ottimali per noi in quanto soffocati dalla costante preoccupazione di non andare avanti.
La valutazione della situazione economica personale da cosa dipende?
Dai risultati di diverse analisi viene fuori che molte persone con lo stesso reddito e patrimonio sono molto più contente del loro livello economico se vivono in un quartiere dove la media è inferiore a loro; ovviamente, succede il contrario se abitano in una zona di benestanti. Nell’autovalutazione finanziaria, il dato oggettivo può essere, in effetti, inquinato sia dalle aspettative personali sia dal confronto sociale.
Le attese di ricchezza sono maggiori se si nasce in un contesto agiato, ma non solo. Viviamo in una società dove l’asticella di cos’è il benessere economico si è notevolmente alzata, adesso per pensarci ricchi dobbiamo disporre di vere e proprie fortune. Nello stesso tempo, quella vita dorata, che prima apparteneva a pochissimi individui lontani dagli occhi di tutti, ci appare continuamente nello smartphone. I social sono un’implacabile specchio di paragone, che ogni volta ci rimanda l’immagine di chi sta meglio di noi, e che perciò ci schiaccia in basso. Anche se le nostre finanze non sono così male.
Ci siamo convinti che gli averi facciano la felicità?
Non è vero, come si sente dire in giro, che non esiste relazione tra rendita e felicità. Il punto fondamentale è un altro: questo legame è debole, la disponibilità economica ci rende solo un poco più contenti, soprattutto se lo paragoniamo ad altre esperienze maggiormente incisive in tal senso.
La conseguenza?
Il denaro è sovrastimato rispetto alla felicità: la maggior parte delle persone pensa che se avesse entrate maggiori sarebbe molto più soddisfatta. Tendiamo a pensare che il capitale ci risolva il problema della felicità e ci impegniamo, per esempio, a guadagnare il più possibile. Ciò ci fa investire moltissimo tempo nel lavoro a discapito di altre attività che paradossalmente ci gratificano di più, come stare con gli altri e relazioni profonde. Nel sottofondo c’è l’effetto “velenoso” dei quattrini, che attivano aree del cervello associate alle dipendenze. È più una metafora che un elemento di fatto, voglio essere chiaro, ma questa valenza tossica è una delle tante conseguenze psicologiche del denaro.
Quanto ci appaga, invece, comprare?
Per alcune ricerche neuropsicologiche, ogni volta che paghiamo qualcosa si mettono in moto le zone cerebrali del dolore. La cosa interessante è che questa sollecitazione non è proporzionale a quanto stiamo sborsando ma a quanto riteniamo che un bene sia caro. Quindi, non so, tirare fuori 30mila euro per un’auto, paradossalmente, ci colpisce meno al cuore dei 5 euro spesi per un semplice caffè! Aggiungo, poi, che la facilità con cui facciamo acquisti non dipende tanto dalla cifra richiesta quanto dai tempi di pagamento: se allontaniamo il momento dell’esborso da quello della fruizione dell’esperienza riusciamo a essere molto più soddisfatti della spesa fatta. Anche se è grossa.
Insomma, quelle comode rate che i consumi ci propongono continuamente sono una promessa di soddisfazione per noi…
Certo, da questo punto di vista la rateizzazione ci porta a non pensare a quello che stiamo tirando fuori, e ciò permette di goderci meglio questa spesa, con meno dubbi e sensi di colpa. Tra l’euforia da shopping dilazionato e la preoccupazione di assolvere l’impegno finanziario, però, mettiamoci il buonsenso: fermiamoci sempre a importi piccoli e limitati come numero, che non pesino nelle nostre entrate! Succede lo stesso con i pagamenti elettronici, e lo dimostrano le osservazioni scientifiche degli ultimi 15 anni. La carta di credito funziona da anestetico del dolore da esborso, che invece avvertiamo se paghiamo con i liquidi. Ecco perché tendiamo a comprare di più o a fare spese non previste quando usiamo la moneta elettronica.
È facile, quindi, sforare il budget…
Sì, ma questo rischio (sempre presente) riguarda solo le generazioni più âgée. A queste, noi psicologi dell’economia consigliamo infatti di pagare il più possibile cash per evitare sgradite sorprese nell’estratto conto. I pagamenti elettronici lasciamoli agli under 30, che ci sono abituati praticamente da sempre. Per loro, il vero denaro è quello elettronico, gli euro che hanno nel borsellino gli sembrano finti o già spesi.
Ma il risparmio è piacere?
Su questo tema, la teoria economica è inversa alla psicologia. La prima sostiene che solo i soldi spesi hanno un’utilità perché con l’acquisto di oggetti, servizi, comfort gli uomini sono più contenti. La seconda, invece, afferma che avere a disposizione un tesoretto sollecita la fantasia, ci induce a pensare a ciò che si può fare con quella cifra. Insomma, il risparmio mette in moto la nostra progettazione, ed è un pensiero che apre prospettive di vita diverse, innovative. La tesi è entrata da poco anche nelle indagini sul legame tra denaro e psiche, quando si è visto che la felicità legata ai soldi dipende più da quanti quattrini abbiamo nel conto corrente rispetto a quelli guadagnati.
Dove sta il punto d’equilibrio tra spendere troppo o non spendere niente?
La psicologia ha riscontrato sei stili monetari, ma una persona che ha un rapporto equilibrato con il denaro non appartiene a nessuno di questi, perché ciascuna tipologia provoca (soprattutto se si amplifica o si fissa) dei danni, grandi o piccoli che siano. Quindi, un idealtipo economico è difficilmente raggiungibile, dovrebbe essere un soggetto abile a fare in ogni situazione un calcolo razionale e preciso tra costi e ricavi.
È impossibile?
Sì. Ognuno ha un’associazione simbolica con il denaro. Per qualcuno è più una sicurezza, una specie di coperta di Linus; per altri, testimonianza di potere, attraverso il possesso di status symbol; per altri ancora, è libertà di fare quello che vogliono (o non fare quello che non vogliono). Per un’altra fetta di umanità, infine, è amore: il riconoscimento che si vale o che gli altri valgono qualcosa per noi è un valore che si dispiega tutte le volte che ci facciamo o facciamo un dono. Detto ciò, la persona in asse non si fa guidare o annebbiare da tutto ciò ma ragiona con il denaro come se fosse un mezzo neutrale: un ombrello di cui ci si serve quando piove.
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