La sindrome dell’impostore è stata scoperta da due psicologhe americane, Pauline Clance e Suzanne Imes che, nel 1978, studiando un gruppo di donne in carriera, hanno osservato l’incapacità delle partecipanti a valorizzare i propri successi. Studi successivi hanno dimostrato che in realtà questo disturbo colpisce anche gli uomini e gran parte della popolazione in generale. Insomma, se ti senti sotto pressione nel momento in cui devi dimostrare le tue capacità (una riunione, uno speech in pubblico, una performance atletica) sappi che anche chi ti sta di fronte potrebbe provare le tue stesse emozioni.
Come scriveva Pirandello in Uno, nessuno e centomila: “Io restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere, ciascuno a suo modo, e io no”. Come a dire che quello che vedono gli altri non è la percezione che noi abbiamo di noi stessi. Anzi, a volte può proprio trattarsi del contrario. Ci sono casi, per esempio, in cui il mondo ci ritiene competenti, ma noi ci sentiamo inferiori alle aspettative altrui. Questa distorsione cognitiva è un vero e proprio disturbo che colpisce molto spesso le persone che hanno raggiunto una certa posizione sociale, sul lavoro, nello sport o in altri contesti relazionali, ma vivono nell’ansia di non essere all’altezza di quel traguardo. Chi ne soffre è convinto di dover indossare una maschera ogni volta che entra in contatto con il mondo esterno, costretto a recitare un ruolo per cui non è mai preparato abbastanza. Ma perché succede?
I sintomi della sindrome dell'impostore
«Prima di tutto bisogna dire che si tratta di persone estremamente critiche verso se stesse e che di conseguenza diventano particolarmente esigenti rispetto a chi gli sta intorno», afferma Patrizia Vaccaro, psicologa e psicoterapeuta presso il centro Studi Cognitivi a Milano. «Inizialmente questa sindrome è stata riscontrata maggiormente nelle donne di successo, e non è un caso. Raggiungere un ruolo di responsabilità per il genere femminile è ancora oggi una conquista, un obiettivo raggiunto spesso con molto impegno ma che, proprio per questo, ingenera ansia e un grande senso di responsabilità. Occorre, insomma, saper dimostrare di rimanere ben saldi sul podio, e per farlo si sviluppano una serie di caratteristiche.
Chi si sente inferiore al ruolo che ricopre è in genere un perfezionista: gli piace avere tutto sotto controllo e verifica più e più volte il proprio lavoro e quello degli altri. Ma siccome è come se avesse interiorizzato l’idea di essere un impostore, anche se è molto competente nella propria professione e raggiunge ottimi risultati, continua a sminuire i propri meriti. In sostanza è come se si ripetesse di continuo: “Certo, sono arrivata fin qui ma ho avuto molta fortuna, mi hanno sostenuto il mio capo, i colleghi” o imputa qualunque altra vittoria a una causa esterna, indipendente dalle sue capacità. O ancora dà la spiegazione al caso: “Si è trattato di una serie di coincidenze fortuite ma prima o poi la verità verrà a galla e tutti scopriranno che sono un bluff”. Questo estremo criticismo verso se stessi porta con sé anche la tendenza ossessiva di cui parlavo sopra: se il perfezionista commette un errore, viene vissuto come una tragedia epocale, non come un incidente di percorso», continua l’esperta.
Dove nasce l’inadeguatezza
Chi si sente sempre il brutto anatroccolo in genere è cresciuto in una famiglia che ha sempre riposto grandi aspettative sui figli. «Per fare un esempio classico, ha avuto genitori che quando si prende un 8 a scuola, ti chiedono come mai non hai ottenuto un dieci. O, peggio ancora, ti chiedono quanto hanno preso gli altri», specifica Patrizia Vaccaro. «In psicologia vengono definiti parenti “criticisti”, perché non riescono mai a gratificare i propri figli dei loro successi né tanto meno a consolarli se qualcosa va male. Sono quei padri o quelle madri che vorrebbero vedere eccellere i loro bambini in ogni campo per “sanare” le loro stesse ferite e un comportamento svalutativo che hanno subito a loro volta. In questo modo, pensano di riscattare i propri fallimenti personali, ma in realtà stanno semplicemente ripetendo un modello educativo sbagliato. Chi cresce in questo modo sviluppa una bassa autostima e interiorizza una percezione di sé distorta. Vergogna, senso di indegnità e timore del giudizio degli altri diventano dei fardelli che ci si porta dietro per molto tempo se non si riesce a metterli a fuoco. Il momento particolare che stiamo vivendo però, la pandemia, potrebbe in parte rivelarsi vantaggioso per chi ha questa sindrome», spiega la psicoterapeuta.
Gli effetti del Covid
Ognuno di noi ha provato o sta sperimentando il lavoro in smartworking. «Il lavoro da casa presenta una serie di complessità da affrontare ma anche numerosi benefici. In particolare per chi vive nel timore continuo di essere scoperto come incompetente, il diaframma di uno schermo può essere di grande aiuto», afferma l'esperta. «Prima di tutto perché dietro a un computer si mantiene una distanza rassicurante, in cui è più facile mostrare il lato migliore di sé.
Inoltre, perché da remoto è più semplice tenere a bada le emozioni. Il perfezionismo che connota il “presunto impostore”, per esempio, viene mitigato dal distanziamento sociale: deve gioco forza imparare a delegare, cosa che in genere gli riesce difficile. E ancora, riesce a tenere meglio sotto controllo la sua pignoleria (sempre determinata dall'ansia da prestazione): è un’attitudine che spesso crea attriti in un gruppo di lavoro. In questo modo il clima è più disteso e si evitano i conflitti».
Come superare la sindrome dell'impostore
«Il primo passo per guarire dalla sindrome dell’ultimo della classe è acquisire consapevolezza del proprio valore e imparare a dare importanza ai traguardi raggiunti. Per esempio, tenendo a mente ogni giorno una qualità che si possiede senza avere il timore di mostrarla agli altri. Inoltre è necessario darsi dei limiti: è sempre possibile migliorare il lavoro che stiamo facendo, ma per il nostro benessere è importante trovare un equilibrio tra il non plus ultra e una scarsa qualità. Infine è essenziale confrontarsi con gli altri: quando entriamo in contatto con le fragilità altrui, la nostra ansia da prestazione si abbassa drasticamente», conclude Patrizia Vaccaro.
Il libro di auto-aiuto
Riscopri la gioia dell’autostima
«Ogni volta che ottenevo un successo, ecco che arrivava quella vocina: “Non te lo meriti, ora se ne accorgeranno tutti”. La paura di essere smascherata, il terrore di non essere mai all’altezza, l’ansia di non essersi guadagnata nulla con le proprie capacità mi accompagnano da trent’anni. In queste pagine cerco di trasmettere quello che ho capito di questa “condizione”, come conviverci e gestirla. Per farlo mi servo dell’unico metodo che conosco: partire da me, dalla mia esperienza, da quelle che sono state le mie sensazioni, i miei sentimenti, il mio vissuto», scrive nel libro Pensavo di essere io… invece è la sindrome dell’impostore, (Vallardi editore, 16,90 €) Florencia Di Stefano-Abichain. Argentina di origine e veronese d’adozione, vive a Milano e lavora come content creator, traduttrice, podcaster, conduttrice radiofonica e tv.
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