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Sindrome di Stoccolma: cos’è e perché si chiama così

Sembra un paradosso, eppure può succedere che ostaggi e rapitori si affezionino reciprocamente durante la loro convivenza forzata. È la sindrome di Stoccolma, a cui Netflix ha dedicato una miniserie

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Si intitola “Clark” la miniserie disponibile su Netflix che segue la vita dell’uomo per il quale è stata coniata l’espressione “sindrome di Stoccolma”, ovvero il fenomeno per cui gli ostaggi si legano ai loro rapitori: Clark Olofsson è il rapinatore più famoso e controverso della Svezia, che ha fatto perdere la testa all’intero paese nonostante le svariate condanne che gli sono state inflitte per traffico di droga, tentato omicidio, violenza, furti e decine di rapine in banca. Ma com’è riuscito a guadagnarsi le simpatie dell’opinione pubblica? Sta proprio qui il cuore della miniserie, dove vediamo Clark conquistare il cuore di tante donne, colpite dal fascino di un uomo spregiudicato.


Perché si chiama così

L’espressione “sindrome di Stoccolma” è stata utilizzata per la prima volta dall’agente speciale dell’FBI Conrad Hassel, in seguito a un episodio accaduto in Svezia tra il 25 e il 28 agosto 1973: per 131 ore, due rapinatori – Jan Eric Olsson e Clark Olofsson, appunto – tennero in ostaggio quattro impiegati (tre donne e un uomo) della Sveriges Kreditbank di Stoccolma nella camera di sicurezza della banca.

«Per assurdo, durante il periodo di prigionia che venne seguito con particolare attenzione dai mezzi di comunicazione, risultò che le vittime temevano più la polizia di quanto non temessero i rapitori, al punto che una delle vittime sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei sequestratori», racconta la dottoressa Cinzia Foglia, psicologa e psicoterapeuta. «Inoltre, dopo il rilascio, venne chiesta dagli ostaggi la clemenza per i sequestratori, per cui alcuni testimoniarono in loro favore durante il processo. Il motivo? Durante quelle 131 ore, vittime e carnefici hanno avuto modo di conoscersi e proprio nella conoscenza sta la chiave di tutto». Sembra infatti che quando due persone entrano in relazione, qualunque ne sia il tipo, si stabilisca una comunicazione, un legame contenente rapporti affettivi, seppur di varia natura.


Che cos’è la sindrome di Stoccolma

Ricapitolando, la sindrome di Stoccolma è una condizione di natura psicologica che induce le vittime di un sequestro a provare affetto nei confronti dei rapitori e, spesso, viceversa. «Durante una prigionia prolungata, gli ostaggi iniziano poco a poco a rivelare nome, storia, emozioni. Ed è provato che, se qualcuno smette di essere anonimo, diventa più difficile fargli del male. Vale anche per un rapitore», commenta la dottoressa Foglia.

«D’altra parte, trascorsi i primi momenti di smarrimento, le vittime realizzano di essere in pericolo. Un pericolo che può arrivare dal sequestratore, ovvio, ma potenzialmente anche dalle forze dell’ordine che potrebbero mettere in atto delle misure di intervento altrettanto critiche, come una sparatoria. A quel punto, negli ostaggi scatta spesso un meccanismo di auto-protezione: tentano di entrare nelle grazie dei rapitori, si comportano in maniera compiacente e sperano in questo modo di salvarsi la vita».

In qualche modo, la priorità della conservazione mette in atto funzioni istintive, di carattere infantile, per ottenere protezione e cura: «L’ostaggio è simile al neonato: deve piangere affinché gli venga dato da mangiare, non può parlare, è costretto all’immobilità, ha paura di un mondo esterno vissuto come minaccioso e si trova in uno stato di totale dipendenza da un adulto onnipotente», elenca l’esperta.


I sintomi e in chi si manifesta

Nel contempo, il mancato intervento della polizia in tempi rapidi fa perdere fiducia nelle forze dell’ordine, per cui diventa sempre più facile avvicinarsi ai carnefici, che in fondo possono procurare acqua e cibo, allentare il bavaglio, decidere di fare o non fare del male. «Se poi ci si accorge che il livello di rischio non è così elevato, perché tutto sommato si viene trattati bene, paradossalmente diventa ancora più facile avvicinarsi al rapitore, mettersi nei suoi panni, capirne addirittura il punto di vista».

L’affezione e i sentimenti positivi verso gli aguzzini sono quindi i segni più tipici della sindrome di Stoccolma, che comunque si manifesta solamente nell’8 per cento dei casi di rapimento: «Sono i singoli tratti caratteriali a rendere più o meno predisposti», precisa la dottoressa Foglia. «A grandi linee, ne restano immuni i soggetti dalla personalità forte e strutturata, con radicate convinzioni morali, che riescono a mantenere ferma la propria identità anche nelle situazioni più stressanti, senza subirle totalmente».


Quanto può durare

In genere, la sindrome di Stoccolma si manifesta entro il terzo giorno di prigionia, ovvero dopo il superamento del trauma iniziale, ma anche a seguito del rilascio può persistere più o meno a lungo. Basti pensare a due noti casi nostrani. Nel 1974, Daniel Nieto – soprannominato “bandito gentiluomo” dai giornalisti dell’epoca – rapì la figlia di una ricca famiglia romana, Giuliana Amati, e alla fine i due si innamorarono. Nel 1998, invece, Gianni Ferrara – un bambino di 8 anni – venne rapito mentre si trovava ai Caraibi in vacanza con la famiglia: negli oltre due mesi di sequestro si affezionò ai rapitori, apparendo freddo e distaccato durante le comunicazioni con la famiglia. «Anche se “parlare bene” dei sequestratori può perdurare nel tempo, tutto dipende dalla capacità del singolo soggetto di sostenere le conseguenze del trauma subito. Situazioni estreme e altamente stressanti come un rapimento, infatti, possono lasciare tracce indelebili e in molti casi condurre a disturbi psicologici, come insonnia, stati depressivi, flashback che fanno rivivere eventi della prigionia».

Attenzione, però: è importante non confondere la sindrome di Stoccolma con altre situazioni dove vittime e aguzzini sono uniti da legami particolari: «Pensiamo alle vittime di violenza domestica che decidono di non denunciare il proprio partner, ad esempio. Si tratta di condizioni molto diverse, dove potrebbe esistere un simile meccanismo di auto-protezione della vittima o magari un perfetto intreccio fra vittima e aguzzino, ma i meccanismi di base sono altri», conclude l’esperta. «Quando è la mente a generare un disagio di qualunque forma o natura, sia la causa sia la soluzione sono sempre personalizzate, perché in psicologia lo standard non esiste».


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