Ogni giorno, nel mondo, vengono scattati oltre 93 milioni di selfie. E c’è chi ha calcolato che, di questo passo, spenderemo almeno un mese della nostra vita alla ricerca dell’inquadratura perfetta. Non è un tempo eccessivo, per un momento d’evasione o, tutt’alpiù di vanità, com’è nel dna di un autoscatto condiviso? Giovanni Stanghellini, psichiatra e psicoterapeuta, ci invita a guardare l’argomento sotto una luce diversa, più profonda, che va oltre l’istante leggero in cui affidiamo alla rete la nostra immagine: nel suo nuovo saggio Selfie – Sentirsi nello sguardo dell’altro (Feltrinelli, 18 €) sostiene che l’autoritratto è ormai un tramite con cui costruiamo la nostra identità corporea. «Ciascuno di noi ha due corpi, forse addirittura tre», spiega Stanghellini.
«Possiamo avere un’esperienza diretta e immediata del nostro corpo, ovvero “sentirlo”. Oppure possiamo vederlo dall’esterno, come quando ci guardiamo allo specchio o in una fotografia. Ma esiste un’ulteriore modalità di scoprire il corpo: percepirlo attraverso lo sguardo altrui. È quello che succede oggi quando postiamo sui social un selfie. Quest’ultimo, ormai, è un ritratto da inviare a chi è lontano per sentirsi presenti nel posto in cui si è». In altre parole: “sono visto, dunque sono”.
Un’esposizione diversa da quella fisica
Metamorfosi di un selfie: da semplice foto a strumento su larghissima scala per assicurarci la nostra identità. A garantirla è il pubblico social, lontano e sconosciuto. Ma l’altro come specchio parlante di noi stessi non è un concetto nuovo nelle dinamiche psicologiche. «Certo, da sempre accediamo alla nostra immagine solo se qualcuno ce la rimanda», dettaglia lo psicoterapeuta Alberto Rossetti, esperto di nuove tecnologie.
«In questo senso, il selfie è simile all’esporci agli occhi delle persone, quando camminiamo per la strada o entriamo in un luogo pubblico. Però, tra l’esperienza reale e quella virtuale, le differenze sono molte, e sostanziali. Nel momento in cui una persona in carne e ossa ci osserva, noi siamo lì, davanti a lei: perciò, ogni giudizio espresso o anche solo intuito in questa circostanza impone un contatto, un’interazione con l’altro. Con un selfie, invece, siamo noi a scegliere l’immagine da mostrare. Lo facciamo con cura, manipolandola con filtri ed effetti speciali, la “consegniamo” ad algoritmi che la gestiranno in base al numero dei nostri follower. E il feedback che riceveremo sarà immediato e, soprattutto, quantificabile in like, visualizzazione e commenti. Un mezzo di “costruzione” personale dai risvolti potentissimi, che tuttavia prescinde dagli elementi fondamentali della relazione, come la parola, la vicinanza fisica, il contatto visivo». Elementi che creano una cornice che dà alla nostra identità corporea quella fluidità emotiva, quel movimento temporale che ci rende umani e che non ci imprigionano in uno stereotipo.
L’approccio è ingannatore
Belli, in forma perfetta, con il vestito giusto e intenti a fare cose interessanti. Che cosa più del selfie è asservito all’epoca odierna che tende a schiacciarci verso un’immagine omologata, a tutte le età e condizioni? E chi più del selfie è capace di mistificare la realtà? Provare per credere. Chiara Ferragni, autoproclamatasi “Selfie queen”, insegna i trucchi per lo scatto perfetto, lancia nuovi filtri di bellezza su Instagram. Spopola ancora FaceTune, che cancella rughe e imperfezioni, e ridefinisce le proporzioni del viso secondo quella che il New Yorker ha definito “Instagram face”, ovvero i nuovi canoni estetici acchiappa like. Come dire: siamo tutti, più o meno, “vittime” di un approccio mediato con la nostra identità corporea: questa è riflessa nei post e nelle reazioni dei follower.
Invece, sostiene Stanghellini, l’immagine si forma in un altro modo, è il frutto di un equilibrio tra il sentire il nostro corpo e la visione riflessa nello specchio. Due percezioni, autonome e dirette, che si completano a vicenda. «È grazie a questo confronto che possiamo sentire le nostre emozioni e metterle in relazione alla nostra immagine, integrandola», prosegue lo psicoterapeuta. «Nello stesso tempo, guardandoci allo specchio possiamo cogliere caratteristiche e difetti che non avvertiremmo limitandoci alla prima prospettiva. Solo lo scambio tra dentro e fuori ci permette di sviluppare un rapporto autentico, singolare e complesso con il nostro corpo». Mentre se riusciamo a darci vita solo se veniamo guardati dall’altro è come se indossassimo una protesi ottica. Indispensabile per fare esperienza del nostro corpo.
L’alto rischio scissione
Le conseguenze? Ciascuno di noi non è più un essere sfaccettato e sfumato, ma il prodotto di una sequenza sincopata di eventi. Di scatti, nella fattispecie. Perché nessun senso più della vista s’accorda bene con questa frammentazione del mondo. «Lo specchio virtuale sta acquisendo un’importanza crescente nella costruzione della personalità», conferma la psicoterapeuta Viviana Morelli. «Come se riuscissimo a prendere forma solo attraverso questa esposizione pubblica agli sguardi social. Certo, tutti abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti. Quel che conta, però, è non provocare una scissione incolmabile tra come siamo e come vogliamo apparire, tra la nostra iconografia online e i nostri connotati offline».
La strada giusta da seguire
La fragilità nasce quando il selfie diventa l’unico sistema che abbiamo per definire chi siamo. Un guscio vuoto nel quale cerchiamo riparo e conferme. «Una comoda scorciatoia per delegare agli altri un giudizio che non potrà che essere parziale e monolitico», aggiunge Morelli. «Non che non dovremmo tenerne conto, ma dobbiamo accompagnarlo ad altri parametri, come l’autosservazione. Il rapporto diretto con la nostra immagine è insostituibile: ne riconosce i contorni multisfaccettati, registra la mutevolezza degli stati d’animo. Davanti a noi stessi, possiamo sapere come stiamo veramente, se quella faccia tirata è l’espressione di un “momento no” o quel sorriso smagliante è l’effetto di una bella notizia. Il selfie invece mostra solo una parte di noi e della nostra molteplicità».
Allora, selfie sì o selfie no? «Esiste una strada sana di vivere questa abitudine: utilizzare il selfie solo per potenziare ciò che abbiamo realmente dentro, e non per propagandare ciò che vorremmo essere», consiglia la psicoterapeuta. «Così potremmo interiorizzare il riconoscimento sapendo che è reale, non filtrato». Allora, via libera a condividere, un momento positivo, uno stato di benessere, una situazione interessante, ma nella consapevolezza che la ribalta virtuale non aggiunge niente di più al nostro essere offline.
Tutto a sinistra
Uno studio congiunto delle Università di Londra, Parma e Liverpool svela un aspetto interessante.
I ricercatori hanno scoperto – analizzando oltre 4mila immagini – che quando ci scattiamo una foto, tendiamo a centrare l’immagine sullo sguardo e in particolare sull’occhio sinistro. Questo fenomeno è sicuramente collegato al cosiddetto “pseudoneglect”, ossia la tendenza naturale della nostra mente
di spostare l’attenzione spaziale verso il lato sinistro. Il motivo è ancora tutto da chiarire, ma gli studiosi ipotizzano che l’obiettivo inconscio sia quello di trasmettere a chi guarda un maggior numero di informazioni.
Consigli per non farsi prendere la mano
Ecco tre consigli per non farci contagiare da “Selfitis”, l’ansia da selfie.
1. Scattiamo meno foto «Troppi selfie danno alla testa e creano dipendenza per l’effetto di rimbalzo immediato che hanno», dice la psicoterapeuta Viviana Morelli. «Quindi, proviamo a lasciare il telefono in borsa e a gustarci di più il momento che stiamo vivendo».
2. Puntiamo ai contenuti «Non siamo pura esteriorità», afferma Morelli. «Invece di comunicare solo con il nostro volto, puntiamo anche sui contenuti: idee, emozioni, azioni».
3. Cerchiamo la relazione «Ci sentiamo belle? Lasciamo perdere il selfie e usciamo», consiglia la psicoterapeuta. «Avere contatti reali rafforza la nostra identità molto più di un like».
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Articolo pubblicato sul n. 9 di Starbene in edicola dall'11 febbraio 2020