Le parole sono farmaci, perché attivano nel cervello le stesse vie biochimiche che la medicina usa nella routine clinica, influenzando la percezione del dolore e di altri sintomi. Su questo meccanismo psicologico si fonda il concetto di placebo, il termine usato per indicare una “finta terapia” che viene somministrata come se avesse proprietà curative.
«Oggi sappiamo quanto possa essere potente la giusta comunicazione tra medico e paziente: può agire come un placebo ed è fondamentale sia nell’accettazione di una malattia sia nelle modalità con cui questa viene fronteggiata», spiega la dottoressa Cristina Cenci, antropologa dell’Istituto di ricerca Eikon Strategic Consulting Italia. «Come è fondamentale personalizzare le cure dal punto di vista clinico, altrettanto importante è strutturare la narrazione sulla base del singolo paziente: c’è chi preferisce mantenere un linguaggio formale con lo specialista, chi non vuole parlare dei dati epidemiologici e della prognosi, chi cerca una valvola di sfogo. L’individualità va sempre rispettata».
Come agiscono le parole sulla malattia
Su queste riflessioni si fonda la medicina narrativa, un nuovo approccio terapeutico che mette al centro il malato e prende in considerazione tutti i suoi elementi più personali: parole, gesti, silenzi, pensieri. L’obiettivo è considerare la malattia non soltanto nei suoi aspetti organici o funzionali, cioè nelle manifestazioni corporee, ma anche nelle sue ripercussioni sulla persona, sul vissuto psicologico e sociale.
Chi è malato non è una “macchina da riparare”, ma un individuo che ha la necessità di confrontarsi con qualcuno che capisca il suo stare male e lo aiuti a ripristinare un ordine che non esiste più. Questo può aiutare il paziente ad accettare e integrare nella propria vita quell’esperienza dolorosa, perché contribuisce a dare benessere.
In qualche modo, le parole possono recuperare la prima relazione che abbiamo instaurato nella vita, quella con la mamma, quando bastava un suo bacio per placare il nostro pianto. Da adulti, possiamo rivivere quell’effetto ogni volta in cui ci sentiamo accuditi da qualcuno: ecco che il rapporto medico-paziente diventa fondamentale, perché chi cura deve stimolare la fiducia e l’aspettativa di guarigione di chi soffre.
Le metafore in oncologia
La potenza delle parole è stata esplorata nell’indagine Metafore in Oncologia, condotta da Eikon Strategic Consulting Italia, che ha analizzato le metafore associate alle patologie oncologiche in oltre 2.500 storie personali di malattia condivise sui social dai pazienti e in oltre 100 mila articoli giornalistici pubblicati online.
La ricerca è stata realizzata nell’ambito della campagna “Il senso delle parole”, promossa da Takeda Italia con il sostegno di AIL, AIPaSiM, Fondazione Paola Gonzato-Rete Sarcoma ETS, Salute Donna ODV e WALCE, per favorire la creazione di un linguaggio comune in oncologia tra specialisti, pazienti e caregiver. «La metafora è una grande risorsa espressiva, perché riesce a condensare vissuti e sintomi difficili da raccontare, che potrebbero altrimenti rimanere inespressi», racconta Cenci.
Cosa dicono i pazienti
Esaminando le 2500 storie personali, è emerso l’utilizzo di 600 metafore diverse, mentre nei 100mila articoli ne sono state rintracciate solamente 58. «Ciò significa che i pazienti hanno una grande creatività: ognuno “forgia” la metafora più adatta alla propria malattia e alla fase che sta vivendo», commenta Cenci.
Per esempio, al momento della diagnosi, sono particolarmente ricorrenti i riferimenti bellici (combattere, dichiarare guerra, nemici invasori, bombardare le cellule), che assumono il significato di lotta per sconfiggere il male, mobilitando una reazione di fronte alla crisi iniziale.
«Poi, con il passare del tempo, subentrano immagini diverse, sovente riferite al viaggio, come percorso, cammino, avventura, traguardo o salita, che aprono uno scenario meno solitario rispetto al precedente, grazie alla presenza di compagni, alleati e soccorritori: è come se da una metafora solitaria come quella della guerra si passasse a quella più corale di un’impresa da affrontare insieme a qualcuno», riferisce la dottoressa Cenci.
«Frequenti sono anche le metafore di trasformazione, come rinascita o bambola di porcellana, capaci di descrivere il cambiamento che coinvolge il paziente e il suo contesto».
Più attenzione all’ascolto
Da tutto questo deriva la necessità, sia per i medici sia per i familiari, di ascoltare con attenzione il paziente e usare le parole più consone al suo percorso, sintonizzandosi con le emozioni. In aiuto viene il sito www.ilsensodelleparole.it/, che – attraverso storie, metaverso, podcast e un Dizionario Emozionale – aiuta a immergersi nel vissuto esistenziale che le parole dette creano nel paziente.
«Le metafore possono essere appropriate o inappropriate a seconda che mobilitino risorse positive o che alimentino paure, fantasmi oppure un senso di incapacità o fallimento», conclude Cenci. «Per questo è importante fare una riflessione ampia sull’utilizzo delle metafore in oncologia, che aiuta ad avere una comprensione più ampia della malattia nei suoi aspetti non solo biologici, ma anche psicologici, emozionali, affettivi e sociali, cogliendo significati altrimenti inespressi».
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