Malattia: come reagire alla diagnosi

La scoperta di una patologia grave o incurabile cambia la vita e le persone. Scopri come affrontarla per gestire al meglio la situazione



di Silvia Calvi

In una scena di un film di qualche anno fa, Caro diario (in cui il regista Nanni Moretti racconta della sua malattia, un linfoma non-Hodgkin), il protagonista arriva sulla spiaggia un pomeriggio d’estate, tra gente che nuota, risate, corse e signore sulle sdraio.

Unica nota stonata, lui: completamente vestito con bermuda, calze, cappello e maniche lunghe. Perché una delle prime conseguenze della malattia è di farti sentire e diventare una persona diversa dalle altre. Alla quale, improvvisamente, è negata la normalità.

È successo anche a Sophie Sabbage, life coach e consulente aziendale inglese, quando nel 2014, all’età di 48 anni, le è stato diagnosticato un cancro al polmone al quarto stadio. Quello che tecnicamente si definisce incurabile. 


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VINCERE L’IMBARAZZO


Superato il primo choc, invece di vedere nel tumore il suo nemico («Non voglio essere una paziente la cui identità  man mano, si riduce», ha scritto sul suo seguitissimo blog aperto 3 mesi dopo la diagnosi, sophiesabbage.com), Sophie Sabbage ha cercato un modo per convivervi, ascoltando quel che le malattia le insegnava.

E ha deciso di raccontarlo a tutti, prima sul web poi in un libro appena pubblicato in Italia da Corbaccio, Vivere la malattia senza farsi sopraffare. «Pochi giorni dopo la diagnosi ho iniziato un mio piano di sopravvivenza», racconta.

«La cultura in cui viviamo rimuove la malattia, ci impone di non parlarne se non in privato, come se dovessimo vergognarcene. Ma avendo lavorato vent’anni nel campo dello sviluppo personale, so quanto disagio e sofferenza creano in noi le cose non dette.

Non mi vergogno di mostrarmi vulnerabile agli altri, di piangere mentre sono in sala d’aspetto prima di una terapia. E non voglio vedere l’imbarazzo dell’infermiera che cerca di frenare le mie lacrime: non è il momento di inibire ma quello di sentire.

La mia fragilità indica solo la mia umanità, la mia capacità di amare e di essere amata: oggi sto scoprendo che è possibile vivere con coraggio anche quando, forse soprattutto, ti dicono che stai per morire. Nel frattempo, il mio compito è quello di abitare lo spazio rarefatto tra la mia feroce voglia di vivere e la malattia. Di una cosa sono certa: ho il cancro, ma il cancro non ha me».

CAMBIARE ABITUDINI


Una grave malattia, che sia un tumore o una patologia cronica come il diabete, l’epatite o una cardiopatia con cui dovremo fare i conti per il resto dei nostri giorni, ci mette di fronte a una questione che, di solito, tutti fingiamo di ignorare: siamo fragili e il nostro tempo è a termine.

«Quando il corpo si fa sentire in maniera eclatante e i medici danno gravi notizie, possono innescarsi due tipi di reazioni. In una, superato lo choc,l’informazione viene metabolizzata e, piano piano, si comincia a cambiare vita», spiega Fabio Sbattella, docente di psicologia dell’emergenza all’università Cattolica di Milano.

«L’altro tipo di reazione, invece, è di rifiuto. Succedequando si decide, letteralmente, di “cambiare la diagnosi”: non ci si fida, ci si rivolge ad altri medici, si fanno nuove analisi e così via. Ci sono addirittura casi di persone uscite dallo studio medico incapaci di ricordare di quanto era stato detto loro».

Sophie Sabbage, fermamente intenzionata a vedere il quinto compleanno della sua bambina, non nega quello che le sta accadendo. Ma, come racconta nel libro, neppure si limita ad accettare le fosche previsioni sulla sua fine.

Quindi ha agito in fretta per seguire le terapie, ha modificato la sua alimentazione (sì, le diete anticancro esistono), ha ascoltato gli esperti ma si è anche fatta guidare dal suo intuito, quell’istinto che ti dice cosa fare quanto tutti attorno fanno pressioni o dicono cose differenti. Questo significa, in una parola, occuparsi di sé, o meglio dirigere la terapia, non scendere dal posto di guida. 

COMPRENDERE LA PATOLOGIA


Nel suo libro l’autrice traccia un percorso che va dal superamento del trauma della diagnosi al cambiamento vero e proprio. Un percorso che, secondo lei, dve necessariamente partire dalla comprensione della malattia. E che quindi comporta lo studio e la conoscenza della propria particolare forma di patologia, porre domande su tutto, cercare informazioni su terapie alternative da abbinare a quelle tradizionali. 

«Questo vuol dire non delegare la faccenda ai medici», scrive la Sabbage.  «Ma capire per poi poter collaborare al meglio con lo specialista cui si decide di affidarsi». Non è facile: anche tra chi accetta la diagnosi le conseguenze possibili sono infinite.

. «C’è chi comincia a bere, a fare uso di droghe o a buttarsi in eccessi di ogni tipo, in una bulimia di esperienze senza sosta; c’è si chiude in casa e scivola nella depressione; chi reagisce con aggressività e rabbia verso “i sani”, chi si dispera al punto da togliersi la vita o chi, in preda a una folle gelosia, uccide i famigliari affinché “non sopravviva nessuno”», racconta il professor Sbattella.

«Ma c’è anche chi reagisce all’angoscia di morte con una fame di vita che porta a sposarsi o, addirittura, a fare un figlio pur sapendo che lo si lascerà orfano. Altri, invece, cambiano vita in senso positivo e non distruttivo: pensano a come dare un senso al tempo che rimane, si impegnano per lasciare una buona memoria di sé, riscoprono affetti e amicizie come se la malattia avesse prodotto un’illuminazione.

Sono tutte reazioni possibili e non è giusto giudicare». Perché non esiste un modo migliore per far fronte a una diagnosi infausta: semplicemente è un’esperienza così forte e totalizzante da portare a galla la natura profonda di ciascuno. Chi però, in questa situazione, si impegna a godersi le piccole cose del presente, a dare comunque il suo contributo al mondo, è certamente un individuo destinato alla fine più
serena di tutti.

VIVERE DAY BY DAY


Convivere con la malattia vuol dire anche imparare a vivere giorno per giorno. Affrontando, di volta in volta, i  crolli emotivi oppure quelli fisici. «Non si deve risolvere tutto in un colpo solo,ma si può procedere un passo e un respiro per volta», scrive la Sabbage.

«Ce la sto mettendo tutta con il cancro ma, nonostante l’esperienza che ho nello sbarazzarmi della paura, quando attecchisce ci sono ancora giorni in cui penso di non farcela. Avere il cancro è come essere in un campo minato psicologico, in cui ogni passo può sembrare sia provvidenziale sia letale.

Ecco perché serve un forte sistema di supporto medico ed emotivo,  professionale e personale. Oncologi, amici fidati, amori. Io vivo per i momenti unici con mia figlia. Vado avanti grazie all’amore per mio marito e la mia famiglia e al loro amore per me». Questa è la migliore medicina. Perché crea le condizioni ideali che, nonostante il dolore, le terapie, le medicine da prendere ogni giorno, innescano questa ristrutturazione positiva del sé.

«Tutte le ricerche dicono che la solitudine aggrava la malattia e i suoi sintomi. Avere accanto famigliari e amici, qualcuno che ascolta e continua a trattarci con affetto, è fondamentale», spiega Sergio de Luigi, psiconcologo. «Anche perché va messo in conto che certe malattie sono come uno spartiacque: non tutti sono in grado di restare accanto all’amica gravemente ammalata.

Alcuni restano, altri si defilano. La vicinanza degli altri, invece, è fondamentale. Anche non chiudersi in casa e continuare a studiare o lavorare, se e quando si può, andare al cinema o in biblioteca, frequentare la parrocchia, aiuta a restare in una rete sociale che tiene alla larga la depressione».

E se chi ha una fede religiosa ha una risorsa in più, secondo gli esperti anche la cultura dà molta forza. «Scambiare con gli altri consigli musicali o di lettura, frequentare un corso di disegno o di storia dell’arte, scrivere la propria autobiografia, sono medicine preziosissime per la mente e lo spirito.

Ma anche antenere la dignità e un minimo di libertà di scelta, come quella di offrire un caffè a un amico o di comprarsi una nuova camicia: è quando siamo privati di una storia di cui, nel bene o nel male, siamo protagonisti, che cominciamo davvero a morire».

Articolo pubblicato sul n.16 di Starbene in edicola dal 04/04/2017

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