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Generazione Z: iperconnessi e stressati

È quella dei ragazzi di oggi. Sempre più immersi nel mondo digitale. Sempre più infelici e soli

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Abitano nell’infosfera (come la chiama il filosofo Luciano Floridi nel suo libro La quarta rivoluzione): una dimensione in cui la distinzione tra essere online e offline non esiste più, non ha più senso.

Qui si è costantemente onlife (altro neologismo lanciato da Floridi) vale a dire in rete, grazie allo smartphone. Sono i ragazzi della generazione Z, quelli nati tra il 1995 e il 2010 (dopo i Millennials, quindi).

Chiamati anche face down generation (perché sempre chini su un device digitale, cellulare o tablet che sia), per loro il mondo non è mai stato senza Google, Wikipedia e Facebook, tutto è accessibile attraverso la rete

(dal cibo ai libri ai vestiti, fino agli amici). L’identità di questi ragazzi è sempre più definita da quello che gli esperti chiamano il “sé sociale”, ovvero l’idea che gli altri si fanno di loro basandosi su ciò che

postano nel variegato mondo  dei social network. Facciamo un esempio: se tutti i tuoi contatti pensano e dicono che sei sicuro di te, è molto probabile che tu ti comporterai come sicuro di te, al punto da diventarlo

veramente.


NON SANNO AFFRONTARE LE EMOZIONI

L’esperienza in questo nuovo mondo non sembra rendere i giovani più felici. Secondo una ricerca della Fondazione Girlguiding appena pubblicata in Gran Bretagna, il 59% delle ragazze tra gli 11 e 21 anni dice che i

social media sono una delle loro principali fonte di stress. «Gli effetti negativi dell’iperconnessione sulla mente sono evidenti», spiega Fabio Giommi, psicoterapeuta e direttore di Nous (scuola di psicoterapia

di Milano). «Prima di tutto vediamo una frammentazione costante dell’attenzione, che porta a una mancanza di concentrazione e lucidità. Ma non basta. Questi ragazzi hanno una scarsa percezione del loro

corpo, sono sempre e solo in una dimensione “mentale”». Significa che le loro esperienze di vita sono in gran parte virtuali, poco fisiche. «Ma se non senti le sensazioni che arrivano dal corpo, non riesci a

decifrare   nemmeno le emozioni, e quindi fai fatica a sopportare la frustrazione, il disagio, la rabbia. In generale diminuisce la capacità di regolare le emozioni», precisa lo psicoterapeuta. Un

esempio? Se un insegnante o un genitore rimprovera un ragazzo, è probabile che quest’ultimo si arrabbi, o nella migliore delle ipotesi si offenda o si mortifichi senza però capire cosa gli sta succedendo. E

la reazione allora diventa più impulsiva e incontrollata. «Nei casi più gravi di disregolazione delle emozioni assistiamo negli adolescenti a un aumento dei fenomeni depressivi, disturbi d’ansia, il self-harming (l’impulso

a tagliarsi)», precisa Giommi.


SONO A RISCHIO IPERATTIVITÀ

«A livello fisiologico, i cellulari, tablet e computer emettono radiofrequenze che possono danneggiare i tessuti che stanno a contatto con questi device», continua

Paolo Soffientini, ricercatore Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare). «Per esempio, tenere più di 50 minuti uno smartphone attaccato all’orecchio può modificare la permeabilità della barriera ematoencefalica

(il “sistema immunitario” del nostro cervello) e alterare funzioni sensoriali come l’udito, il tatto, la vista e l’olfatto. Senza contare, poi, i disturbi del sonno associati a un elevato utilizzo dei device digitali e,

ancora, deficit dell’attenzione, iperattività e problemi  comportamentali di vario genere», continua il ricercatore dell’Ifom.


PERCHÉ DIVENTANO “TOSSICI DIGITALI”

Ma come mai i nostri ragazzi invece di uscire con gli amici preferiscono stare in casa attaccati ai loro device? «I grandi attori di Internet sono molto abili nel tessere la tela che li intrappola», continua il dottor Giommi.

«Uno degli esempi più illuminanti è la funzione del tasto “like”. Come ha spiegato l’ex presidente di Facebook Sean Parker, i “like” sfruttano quel meccanismo psicologico di ricompensa (reward) che è

presente in tutte le forme  di dipendenza: in pratica, quando noi vediamo sulla nostra pagina Facebook un nuovo “mi piace” è come se ricevessimo una piccola “dose” di dopamina (il cosiddetto ormone della

felicità prodotto nel nostro cervello).  L’approvazione sociale in sostanza alimenta i circuiti cerebrali della ricompensa e, di conseguenza, una sensazione piacevole e appagante che vogliamo replicare», spiega Giommi.


COME SI MODIFICA IL CERVELLO

«Recenti studi di neuroimaging (una tecnica che consente di visualizzare in tempo reale gli effetti di una sostanza sul cervello) hanno dimostrato che la dipendenza da Internet è paragonabile a quella

derivata dall’assunzione di alcol e droghe come l’eroina e la cocaina», chiarisce Soffientini. «Come in chi fa uso di stupefacenti, a livello cerebrale assistiamo a una riduzione della materia grigia nel lobo

superiore frontale destro e in quello inferiore destro, una riduzione della funzionalità del mesencefalo, della corteccia cingolata anteriore e del talamo bilaterale. Queste aree del cervello che controllano numerose

funzioni cognitive (come attenzione, memoria,  lucidità) risultano quindi meno efficienti», continua Soffientini. «Notiamo anche variazioni a livello della materia bianca cerebrale: alla riduzione del lobo limbico,

dell’ippocampo e dell’amigdala, dove risiedono differenti informazioni sensoriali ed emozionali, corrisponderebbe il bisogno di controllare continuamente il cellulare», precisa il ricercatore dell’Ifom. «Queste

variazioni cerebrali sono invece simili a quelle di chi ha problemi  di alcolismo».


LE POSSIBILI VIE D’USCITA

Come possiamo convincere la generazione Z a uscire dall’infosfera o starci senza troppi danni? «Può essere utile spiegare ai ragazzi che le big company, come Google e Facebook per esempio, guadagnano sulla vendita di pubblicità o dei

dati relativi agli utenti (quanti anni hai, cosa mangi, come ti diverti e cosa compri, per fare un esempio). In realtà vendono il nostro tempo passato online, o per meglio dire, la nostra attenzione», spiega

Fabio Giommi. «Nel momento in cui accediamo  a un servizio gratuito in rete dobbiamo essere consapevoli che il prodotto siamo noi». Sarà sufficiente a convincerli? Entrambi gli esperti concordano sul

fatto  che, per combattere questo fenomeno, è necessario che noi adulti diamo il buon esempio, spegnendo il cellulare. Perché i primi a essere dipendenti siamo proprio noi.



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