Educare un figlio sembra ogni giorno più complicato. Le aspettative si fanno sempre più ambiziose e le richieste del mondo esterno sempre più pressanti. Il genitore oggi, è innegabile, deve mettere insieme un’infinità di competenze, rischiando così di perdere la rotta giusta. «Un bambino chiede solo affetto e amore, protezione e accoglienza. Ecco il vero nutrimento di cui ha bisogno per crescere», ha detto lo psichiatra Vittorino Andreoli.
Non sono entità separate
Abbracci e parole, vicinanza e dialogo. Non esiste miglior viatico per accompagnare il viaggio di un figlio e per aiutarlo a realizzarsi seguendo i suoi sogni. Ma, a fare la differenza, è come dosiamo questi due ingredienti. Ce lo ricorda anche Nicola Tomba, psicologo esperto di educazione infantile, in libreria con il saggio Crescere con la testa e con il cuore (Gribaudo, 16,90 €): «Lo stile educativo, cioè la modalità tipica e ripetuta con la quale un genitore interagisce con il figlio, dovrebbe avere come obiettivo l’equilibrio tra due grandi aree: quella psicologica, emotiva e relazionale (il cuore) e quella intellettiva, relativa alle capacità da spendere nella vita (la testa)».
Mentre l’errore di fondo che fanno i genitori è cadere in un eccesso o nell’altro. Da un lato ci sono quelli iperprotettivi che, timorosi di provocare un danno o un dispiacere, impediscono al figlio di esplorare e di apprendere secondo le proprie modalità. Dall’altro lato, ci sono i genitori-panzer che vogliono tutto: risultati scolastici, prestazioni atletiche o artistiche e che trasformano la vita di un ragazzo in una marcia a tappe forzate per raggiungere certi obiettivi di successo.
Contano spontaneità e autenticità
«Gli adulti sono portati a considerare razionalità ed emotività come due entità separate, in realtà testa e cuore devono essere tenute insieme», afferma la psicoterapeuta Marzia Cikada, autrice del blog pollicinoeraungrande.it. «Sapersi ascoltare a livello emotivo è il presupposto per prendere le decisioni migliori, che ci portano alle conquiste e all’autorealizzazione. Conoscersi, infatti, garantisce sempre una buona performance, perché permette di agire in sintonia con se stessi».
Ma come si trasmette a un figlio il concetto che l’esistenza è un “compromesso” tra sensibilità emotiva e logica efficiente? «Il raggio d’azione del genitore è molto ampio, coincide con la vita di tutti i giorni», dettaglia Nicola Tomba. «È nella quotidianità, attraverso le nostre parole, i nostri gesti, le nostre interazioni che i ragazzi possono capire che le emozioni non sono né da nascondere né da ignorare. Facciamo da esempio, quindi, e non mostriamo sempre la faccia impassibile delle migliori occasioni».
Anzi, dimostriamo che la vita è fatta di alti e bassi, che rabbia e tristezza, gelosia e noia, paura e delusione non sono reazioni sbagliate o condizioni eterne, che qualsiasi situazione può trasformarsi in esperienza utile per il futuro. Con un’educazione costante, l’emotività non sarà un “boomerang” per un ragazzo ma un’alleata, un segnale d’orientamento (“Cosa mi fa stare bene o male”?; Come posso evitare le situazioni sgradevoli o potenziare quelle piacevoli?) su cui costruire le loro scelte», precisa lo psicologo. In pratica, imparano a ragionare sui loro stati d’animo.
Imparare come fonte di gioia
Anche l’ascolto è fondamentale. A volte le richieste incessanti sfiancano anche il genitore più permissivo, certe proteste vengono bollate come capricci. «Per un ragazzino, invece, è importantissimo essere preso in considerazione, quando esprime un’idea brillante come quando manifesta un disagio: l’attenzione del genitore gli conferma che è in grado di distinguere ciò che lo fa stare bene da ciò che lo infastidisce, e che le proprie emozioni, sensazioni e intenzioni sono degne di essere espresse», aggiunge Cikada. Un figlio, poi, dovrebbe potersi permettere di sbagliare.
«Tra grandi aspettative e progetti ambiziosi, i bambini d’oggi sono iperstimolati, devono fare il pieno di competenze, essere i migliori. Imparare non è mai sbagliato, ma dovrebbe essere fonte di gioia e non coincidere solo con l’essere i più bravi», spiega la psicoterapeuta. «Accogliere un figlio, a prescindere dalle sue performance, farà di lui una persona empatica, consapevole dei propri sogni e bisogni, capace di scegliere in maniera autonoma, con la testa e con il cuore. E non una persona sempre in ansia, sempre in gara, in bilico tra il vincere o il soffrire».
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