Un fatto è certo: l’età dei perché è passata da un bel pezzo e, su larga convenzione e convinzione collettiva, non siamo più legittimati a fare quelle 300 domande al giorno che per un bambino tra i 2 e i 4 anni sono la normalità, come dicono gli studi a tema. Anzi, è radicata la prassi che da adulti ci è difficile andare al di là di uno standard “Come stai?”, che ormai non è altro che una formula di saluto fine a se stessa. Eppure, nell’attimo in cui alziamo la bandiera della discrezione educata, del distacco garbato, della saggia riservatezza, ci perdiamo in termini di qualità di vita. La pensa così il mental coach e counselor Giovanni Cozza, che ha creato e brevettato un processo di apprendimento della maieutica (il metodo che aiuta una persona ad acquisire da sola le proprie competenze) che ha denominato ”Domandologia”. Un corso sulla tecnica di fare domande rivolto a chi vuole imparare a maneggiare questo potente (ma ignoto e sottovalutato) strumento di comunicazione.
A Starbene spiega il ventaglio di non trascurabili possibilità di realizzazione personale che offre.
Ma è così difficile fare domande?
Sì. Non siamo allenati, e ci limitiamo a fare le uniche domande a cui ci siamo abituati fin da piccoli e che s’esauriscono con il sì o il no, (“hai fatto questo o quello”?). A bloccarci nell’andare oltre gli interrogativi che prevedono solo un verbo, è anche la poca voglia di ascoltare la risposta, che è una fatica sia d’attenzione sia di empatia. Chiedere in modo sincero e profondo, infatti, significa mettersi nei panni della gente e sentire cosa si prova dall’altra parte. E con la scusa che fare domande è maleducato, evitiamo quest’impegno. Eppure di fronte a un quesito autentico non c’è invadenza ma interesse per il mondo.
C’è domanda e domanda, quindi…
Quali sono quelle che contano davvero? Ci sono due categorie di domande. Quelle chiuse che iniziano con un verbo (“Vuoi mangiare pesce stasera?”): veloci, a cui rispondiamo di malavoglia o distrattamente in quanto si limitano a dare input di servizio. Quelle aperte (“Cosa vuoi mangiare stasera?” o “Qual è il vantaggio che stasera mangiamo il pesce?”), che cominciano con un pronome o un avverbio interrogativo, invece, stimolano la conversazione e l’interazione tra le persone. Infatti, indirizzano il dialogo su temi precisi, decisi da chi pone la domanda, danno informazioni rivelatrici sull’altro, fanno riflettere entrambi gli interlocutori. È con quest’ultimi quesiti che non abbiamo confidenza.
Che effetti hanno nelle relazioni?
Fare una domanda articolata significa entrare in una relazione di scambio, che esige coinvolgimento, apertura e volontà di rimettersi in gioco, perché produce cambiamenti significativi nei rapporti interpersonali. Chi riceve la domanda si sente accolto, riconosciuto come persona e, magari, anche invitato a rivelare qualcosa di sé che non avrebbe scoperto se non con quella domanda. Ma anche chi la pone ci guadagna, e non solo perché quel legame diventa più chiaro, profondo e autentico. Anche il nostro percorso interiore ne viene avvantaggiato in termini di progressione e di consapevolezza. Non a caso, dico che la domanda “vera” è sempre un atto di egoismo altruistico.
Le domande aiutano a evolverci?
Se la domanda è onestamente posta, bisogna essere pronti a rivedere il nostro patrimonio di informazioni e opinioni alla luce della risposta, se questa contraddice i dati che già possediamo. In fondo, nessun cervello “normale” può sfuggire alla domanda. Una pratica che può rilevarsi tanto destabilizzante quanto faticosa. La risposta dell’altro, in sintesi, ci obbliga a farci noi stessi delle domande. E a rivedere i conti in sospeso.
Ne vale la pena, sembra di capire...
La domanda è uno strumento di conoscenza, che serve sia ad avere conferma di ciò che già sappiamo oppure per scoprire ciò che non sappiamo. Soprattutto, ha potenza maieutica, poiché tira fuori le nostre risorse interiori. Per risolvere problemi, per resettarci, per avere una vita, a tutti i livelli, più serena e appagante.
Dobbiamo bypassare le domande standard?
Anche se abbiamo urgenza di una risposta immediata, basta iniziare la frase con un pronome o avverbio interrogativo (chi, che cosa, come, quando, perché, quanto, dove) al posto di un verbo per trasformare una qualsiasi domanda chiusa in aperta, e avere un responso più costruttivo. Al lavoro, per esempio: c’è una bella differenza di feedback che possiamo ricevere tra chiedere “dobbiamo spegnere il pc?” e “quando va spento il pc?”.
Esiste l’arte della domanda?
Io ho messo a punto un metodo con l’acronimo d.a.r.e che significa: saper fare domande, sapere ascoltare, saper riformulare (ripetere con parole proprie per assicurarsi di avere ben ascoltato) ed empatia. Le domande, da sole, non servono a niente se non vengono condite con tutti gli elementi dell’arte dialogica. Quindi quando siamo con qualcuno, ogni tanto parliamo, ogni tanto ascoltiamo, ogni tanto domandiamo.
Giusto o meno farsi domande in questo periodo storico?
Il Coronavirus ha saturato l’aria di tanti dubbi che la voglia di scappare dalle domande è forte, per schivare false aspettative e prenderci solo ciò che ci arriva gratis. Però, sarebbe meglio interrogarci su come sta andando il mondo. Per metterci in una posizione proattiva e prepararci a fare delle scelte. La domanda “Cosa cambierà” è la premessa per prendere in mano la nostra vita e gestirla nei tempi e i modi dettati dalla realtà.
I TRE PASSI PER IMPARARE A FARE DOMANDE
Sono tre gli elementi psicologici che ci devono guidare nel fare le domande migliori per noi stessi e la nostra socialità, dettaglia il coach Giovanni Cozza.
- Innanzitutto, bisogna essere sinceramente curiosi della cosa che stiamo chiedendo. Queste sono le domande che funzionano perché l’altro coglie l’attenzione verso la sua personalità e ha piacere di raccontarsi attraverso le nostre domande. Per converso, lasciamo perdere ciò che non ci attira, altrimenti si capisce subito che la domanda è falsa, con un ritorno di risposta stereotipata.
- Diamo spazio all’empatia. La capacità di mettersi nei panni di una persona e di capire quali sono le sue caratteristiche peculiari ci permettono di formulare domande tagliate su misura, perfette per rilanciare la voglia di raccontarsi in modo genuino. L’importante, comunque, è che l’interrogativo coinvolga l’interlocutore, sennò suona come una strumentalizzazione a vantaggio solo dei nostri bisogni e desideri.
- Non può mancare la reattività, la capacità di valutare qual è il feedback che riceviamo dalle nostre domande. Equivale a una presa di consapevolezza, che ci permette di andare avanti (sì, se abbiamo tirato fuori ricchezza di informazioni o spunti di riflessione) o cambiare tiro. Tenacia, però: prima di arrivare a un buon livello di scioltezza ci vogliono mesi di esercizio.
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Articolo pubblicato sul n. 2 di Starbene in edicola dal 19/1/2021