L'Italia fotografata dal Censis nel suo 52° Rapporto sulla situazione sociale del Paese appare stanca, demotivata e ostile. I numeri parlano da soli. Ma sembrano confermarlo anche le cronache cittadine: fatti di ormai ordinaria violenza alimentati dall’insofferenza e dalla voglia di prevaricare il prossimo.
Un atteggiamento trasversale a tutte le età: dal dodicenne di Garlate (Lecco) che impediva ai compagni di prendere posto sullo scuolabus alle due mamme che a Gela (Caltanissetta) litigano e si picchiano proprio durante la recita di Natale dei figli. Gli esempi potrebbero essere molti altri.
Il rapporto del Censis parla di una “conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”, un atteggiamento che si sarebbe insinuato nei gangli della nostra società e che ci spinge a fare da soli. Ma ecco un po’ di dati. Il 69,7% del campione preso in esame dall’Istituto di ricerca non vorrebbe come vicini di casa i rom, il 69,4% rifiuta le persone con dipendenze da droga o alcol.
Il 52% è convinto che si fa più per gli immigrati che per gli italiani, quota che raggiunge il 57% tra chi ha redditi bassi. Il 63% vede in modo negativo l’immigrazione da Paesi non comunitari (contro una media Ue del 52%) e il 45% anche da quelli comunitari (rispetto al 29% medio).
Un sentimento diffuso e profondo
«La cattiveria è una componente negativa e nefasta, regressiva e istintuale, della nostra esistenza», ci aiuta a riflettere Duccio Demetrio, filosofo e fondatore della Libera Università dell’autobiografia di Anghiari. «Ha sempre fatto parte dell’animo umano, ma oggi appare in una veste nuova, più diffusa e profonda».
I ricercatori del Censis puntano il dito contro la mancata ripresa economica che ha provocato negli italiani una delusione profonda per la perdita di prospettive individuali e collettive, tale da spigerli a essere molto più aggressivi. Non a caso, rispetto al futuro, il 35,6% degli italiani si dice pessimista.
«Stiamo diventando ogni giorno sempre più individualisti, l’egocentrismo ha ormai raggiunto una diffusione endemica. È qui che nasce la cattiveria che ci porta a non avere considerazione dell’altro, a disprezzarlo, a considerarlo un nemico, anche presupponendo una competizione che non esiste, come quella con gli immigrati, o cercando un semplice capro espiatorio, sufficientemente debole, sul quale accanirci», prosegue Demetrio.
Il silenzio delle forze sane
Vecchie e nuove insicurezze, un impoverimento dei valori, ma davvero “tutto arretra”, come si legge nel rapporto del Censis? Davvero non c’è speranza? Secondo Chiara Saraceno, sociologa e psicoterapeuta, non è proprio così. «Siamo tutti un po’ più irritati, questo è vero, colpa del clima ansiogeno che si è creato», spiega lei stessa. «Ma se guardiamo da vicino quello che accade, scopriamo che gli italiani sono ancora capaci di esprimere valori importanti, solidali e rispettosi del prossimo».
Le forze sane ci sono, solo che propendono a stare in silenzio piuttosto che a farsi avanti e a proporsi come modelli. «La cattiveria non è predominante, fa solo più notizia», concorda il sociologo Guido Lazzarini, autore del libro Aggressività e violenza. Fenomeni e dinamiche di un’epoca spaventata (Franco Angeli, 45 €). E allora eccolo, il primo e fondamentale antidoto al veleno della cattiveria: fornire di megafono le voci che parlano di generosità, dedizione, solidarietà, elevarle a esempio per tutti.
«L’amore e il rispetto nascono dagli individui, ma il singolo ha purtroppo una presa limitata sull’opinione pubblica. Deve passare dall’io al noi», prosegue il sociologo. «Quando l’azione individuale diventa collettiva avrà più chances di promuovere speranza e fiducia. Quello che auspico è che la società dell’informazione, compresi i social media, diventi sempre di più cassa di risonanza di ciò che c’è di buono, per scatenare l’effetto emulazione e rendere meno dominante il manifestarsi della cattiveria».
Non è facile trovare nuove coordinate, che mettano insieme valori antichi e i nuovi bisogni. «Potremmo iniziare dai gesti più umili, perfetti per promuovere un cambiamento», suggerisce il professor Demetrio. «Come la vicinanza, che permette di vedere la sofferenza altrui e di non trascurarla. Oppure, la generosità senza aspettare niente in cambio. E ancora, la cura delle relazioni familiari, la rinuncia alla competizione a ogni costo».
Come cambiare rotta
La vera sfida, allora, è invertire una tendenza, mettere in minoranza dentro di noi quegli istinti che ci tengono prigionieri del rancore e dell’aggressività. E per farlo è necessario risalire alle origini psicologiche dell’incattivimento. «Il motore che alimenta gesti sgarbati, invidia e altri pensieri negativi e aggressivi è la frustrazione», spiega la psicoterapeuta Monica Morganti. «Se sono insoddisfatto, se mi sento insicuro, se sento che non ho possibilità alcuna di realizzare i miei desideri, accadono due cose: o mi arrabbio con me stesso generando sindromi depressive o psicotiche, oppure me la prendo con gli altri, cercando un capro espiatorio, compiendo atti vandalici, esprimendo rabbia».
Per combattere questi atteggiamenti, occorre dunque lavorare sulla causa, più che sul sintomo. «Capire che cosa mi rende infelice è il primo passo che mi aiuterà a canalizzare le energie in maniera più costruttiva». Per esempio, se sei preoccupato per il futuro dei figli, è inutile dare sfogo all’invidia, sarà meglio mettere a fuoco come aiutarli ad avere prospettive migliori. Se ti sembra che il mondo vada in malora, invece di prendertela con il primo che capita, prova a ragionare sul contributo che tu puoi dare.
«Per non alimentare in noi la cattiveria, occorre stimolare gli aspetti più nobili e più alti che possediamo», conclude Morganti. «Conoscere il mondo, leggere, informarsi, aprirsi a ciò che ci è sconosciuto: sono tutti antidoti che ci aiutano a non inquadrare gli altri come i nemici da combattere. Perché il vero cambiamento si produce partendo da noi stessi».
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Articolo pubblicato nel n° 3 di Starbene in edicola dal 2 gennaio 2019