“Chi è dappertutto non è da nessuna parte”, scriveva Seneca. Una frase che sembra calzare a pennello sulla concentrazione, perché se la mente è troppo vagabonda finiamo per concludere poco o nulla. Concentrarsi è l’esatto contrario del multitasking, perché significa focalizzare l’attenzione su una sola attività alla volta, convogliando energia, impegno e dedizione su quello che facciamo e vogliamo.
«Quando ci concentriamo, avvengono diverse cose nel cervello, tutte altrettanto importanti per il risultato finale», spiega Fabio Paglieri, primo ricercatore presso l’Istituto di Scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma e autore del libro Concentrarsi. Prestare attenzione in un mondo rumoroso (Il Mulino, 12 €). «Le aree maggiormente coinvolte sono quelle corticali, in pratica la parte più esterna e rugosa del cervello. E ciò non stupisce, visto lo stretto legame fra la concentrazione e altre facoltà assolte da queste aree, come l’attenzione e il controllo esecutivo». In parole semplici, si attivano circuiti cerebrali specifici e si formano nuovi collegamenti tra neuroni, le cosiddette sinapsi, su cui possono fluire e consolidarsi nuove informazioni.
Conta l’ambiente
Quando si parla di concentrazione, conta sicuramente la forza di volontà, ma fino a un certo punto. Pensare che questa capacità sia un talento naturale, di cui alcuni godono mentre ad altri fa difetto, è poco fondato scientificamente. «Questo non significa che non possano esistere disturbi congeniti della concentrazione», tiene a precisare l’esperto, «ma anche su questo bisogna evitare gli eccessi diagnostici e la medicalizzazione affrettata: prima di bollare un bambino o un adulto come affetti da deficit di attenzione o iperattività, è opportuno assicurarsi che la diagnosi sia fondata, necessaria e utile, escludendo prima le spiegazioni alternative e sentendo il parere di vari esperti, anche con apporti disciplinari diversi e complementari».
Piuttosto, e questo vale per tutti, contano le caratteristiche del contesto in cui ci troviamo: «Anche la persona più volitiva del mondo faticherebbe a concentrarsi al centro di un’area affollata e rumorosa. Non a caso, da sempre, gli esseri umani progettano con cura i luoghi in cui svolgere attività che richiedono concentrazione: dai monasteri medievali agli studi moderni, l’idea rimane quella di “apparecchiare il mondo” in modo adeguato», racconta Paglieri.
Che cosa disturba di più
E anche se ciò che ci distrae è soggettivo, visto che dipende innanzitutto dagli interessi personali, alcune caratteristiche generali si possono individuare. «Uno stimolo ha maggiori probabilità di distogliere la nostra attenzione se la sua elaborazione passa per lo stesso canale e attiva processi che già stiamo utilizzando per il compito principale su cui vorremmo concentrarci», spiega l’esperto.
Per esempio, se stiamo scrivendo un documento al pc (che richiede un controllo completo della nostra attenzione visiva), un’altra distrazione del genere – come la tv accesa – risulta particolarmente molesta. Meno dannoso invece può essere l’ascolto di musica, a patto di selezionare brani (per esempio classici o comunque poco “urlati”) che non si impongano alla nostra attenzione (come un sottofondo di heavy metal).
8 secondi? Dipende!
Ovvio, uno stato di intensa concentrazione non può essere sostenuto indefinitamente: alcuni studi dicono che riusciamo a mantenerla mediamente per 8 secondi, meno di quanto riesce a fare un pesce rosso, ma in realtà non esiste una soglia universale che valga per tutti e in qualunque situazione.
«In generale, bisogna evitare di imporre limiti a priori o tempi massimi alla propria capacità di concentrarsi: spesso le nostre capacità cognitive sono capaci di stupirci in positivo».
E invece conta quello che mangiamo? No. «Certo, una dieta sana migliora l’equilibrio psicofisico con ricadute positive su tutte le facoltà cognitive, ma da qui a pensare che esistano “diete della concentrazione” il passo è lungo. Discorso che si applica, a maggior ragione, ai numerosi “farmaci per la concentrazione” che sempre più si stanno diffondendo. Salvo rari casi di patologia conclamata e accertata da équipe multidisciplinari di esperti, simili “rimedi” vanno evitati. Impegnarsi con dedizione in un compito non ha scorciatoie farmacologiche o stampelle biochimiche», puntualizza Paglieri.
Serve a rendere di più
Ma perché è così importante saperci concentrare nel modo giusto? «Perché migliora sensibilmente la qualità dei risultati nell’attività a cui la si dedica, qualunque essa sia», risponde l’esperto.
Inoltre plasma il cervello a questo tipo di routine: chi passa la vita a bazzicare da un breve passatempo superficiale all’altro, senza mai impegnarsi veramente in nessuno, crea una sorta di abitudine mentale a cui sarà sempre più difficile sottrarsi, mentre porre dedizione allena la concentrazione in vista di prove e traguardi futuri. E questo vale sin da giovani e qualunque sia il compito, inclusi giochi, passatempi e svaghi.
«Coltivare le capacità di concentrazione delle nuove generazioni può essere uno degli investimenti migliori dal punto di vista socio-economico», conclude Paglieri.
La mossa del cavallo
Consiglio d’emergenza: se proprio non riusciamo a concentrarci su quello che dobbiamo fare, smettiamo di perderci tempo e dedichiamoci a tutt’altro ma sempre con passione, mettendoci tutta la concentrazione che non riuscivamo a impiegare nel compito iniziale.
«Si tratta poi di vedere se riusciamo a tornare sull’impegno di partenza per il tempo e lo sforzo che richiede: se ce la facciamo, la “mossa del cavallo” che ho appena suggerito ha consentito di superare un apparente scacco; se invece la capacità di concentrarci sul compito iniziale continua a latitare, allora potremmo avere un problema più serio, ma difficilmente avremmo avuto un esito diverso rimanendo a vegetare sul primo ostacolo», sostiene Paglieri. Q
uesta strategia un po’ anarchica ha senso per due motivi: il primo è che la concentrazione allena chi la pratica, a prescindere dall’oggetto, quindi fare bene X aumenta le probabilità di avere successo anche con Y; il secondo motivo riguarda il bilancio complessivo della nostra vita, individuale e sociale.
«Perdere tempo è sempre un delitto, la cui gravità non dipende da cosa avremmo dovuto portare a termine: le energie sprecate fingendo di studiare o lavorare non sono più giustificabili di quelle facendo altro. Ciò che conta è la qualità del nostro impegno, prima ancora dell’oggetto a cui lo dedichiamo. Il motto, insomma, è: “qualunque cosa tu faccia, falla bene”», conclude l’esperto.
Il consiglio in più
Se dovessimo scegliere un partner lavorativo alla cieca, fra uno studente distratto e uno sportivo determinato optiamo per il secondo: sapersi concentrare su una cosa qualsiasi è un talento più prezioso che non sprecare tempo sulla “cosa giusta”.
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