Basta compiti! È il grido di rivolta di un movimento di genitori e insegnanti che, attraverso le pagine di Facebook, ha ingaggiato una protesta contro lo studio a casa, lanciando addirittura una petizione per la loro abolizione nella scuola dell’obbligo (la trovi nel sito change.org). La mole di esercizi di matematica e grammatica, le pagine di storia e geografia, l’immancabile tema o la relazione scritta, dicono, piombano sulle spalle dei ragazzi come un fardello inutile e dagli effetti scadenti. Stando ai dati dell’Ocse, gli studenti italiani dedicano 9 ore a settimana allo studio a casa, contro una media mondiale di 4,9.
Nonostante ciò, i migliori risultati per competenze, nelle classifiche internazionali, sono a favore degli studenti finlandesi e coreani, che fuori dalle mura scolastiche sudano sui libri meno di 3 ore alla settimana. Eppure nel nostro Paese i compiti continuano a sopravvivere e, durante il weekend e le vacanze, spesso si trasformano in un affare di famiglia: obbligano i genitori a calarsi nei panni dei professori e rubano tempo allo svago e allo stare insieme. Ma è giusto? Ne abbiamo parlato con la professoressa Daniela Boscolo, che è stata uno dei due finalisti italiani al Global Teacher Prize, una sorta di premio Nobel che viene assegnato a un insegnante eccezionale per il suo contributo alla professione.
POCHI O MOLTI, DEVE FARLI DA SOLO
«Nella scuola dell’obbligo, quasi tutto il lavoro va svolto in classe perché è lì che gli alunni apprendono un metodo di studio: imparano a sottolineare, a creare schemi o mappe mentali, a decodificare un testo, a trovare strategie personali, magari confrontandosi con i compagni, per superare le difficoltà. Insomma, è a scuola che si impara», spiega Daniela Boscolo. «Il lavoro a casa e i compiti vanno letti nella loro giusta chiave: servono come consolidamento di quel che si è visto, sperimentato o discusso in classe. Sono una verifica e una riflessione personale per fissare nella memoria ciò che si è appreso e, proprio per questo, spettano agli studenti. I ragazzi devono farli da soli, sostenuti dalla presenza discreta dei genitori, declinata con domande del tipo “Mi fai vedere cos’hai imparato oggi a scuola?” o “Come sei riuscito a risolvere questo problema ?”. Così lo studente è primo attore dell’apprendimento, ma nello stesso tempo il suo lavoro diventa un valore anche nella relazione con mamma e papà. Schierare una task force familiare per smaltire i compiti, invece, si traduce solo in una competizione con gli altri genitori, e i compiti diventano quelli dei grandi e non più quelli dei bambini o dei ragazzi: una dinamica poco sana che non fa crescere l’autonomia dei figli e il loro senso di responsabilità».
10 MINUTI IN PIÙ OGNI ANNO
Eppure, spesso a richiedere molti compiti sono proprio i genitori, convinti che gli insegnanti che ne assegnano tanti siano di serie A e che solo se i loro figli sudano sui libri imparino davvero. In realtà, gli interminabili tour de force pomeridiani sono inutili. Lo studio a casa deve essere su misura, ma di qualità: pochi esercizi di revisione, calibrati in rapporto all’età. La National Education Association, massima autorità dei professionisti della scuola americana, raccomanda per esempio di assegnare agli studenti un carico di lavoro a casa pari a “dieci minuti per classe”: dieci in prima elementare, venti in seconda, fino a due ore al giorno per i maturandi. Alle superiori, lavorare a lungo anche nel pomeriggio per rinforzare le proprie prestazioni diventa essenziale.
CI VUOLE DISCIPLINA
Se si individua un metodo, però, l’impegno non si traduce in un supplizio. «Per questo è importante far sì che, sin dai primi anni di scuola, la revisione personale diventi un’abitudine: così rimane un fil rouge che accompagna lo studente sino all’adolescenza e anche oltre. In una parola, una disciplina», sottolinea la nostra esperta. «Sin dalla prima elementare, perciò, si può concordare con il bambino l’orario in cui dovrà mettersi sui libri. Senza nulla togliere al gioco, allo sport o allo stare all’aria aperta, il patto andrà rispettato. Anche l’ambiente deve essere quello giusto: telefonino spento e rumori ambientali ridotti al minimo per poter riflettere e rimettere a fuoco le informazioni apprese sui banchi. Inutili, invece, le ripetizioni estenuanti di regole e dati in vista della verifica o dell’interrogazione: incamerarli e ripeterli a comando solo per una prestazione diventa un esercizio che lascia il tempo che trova. È una memorizzazione basata sull’automatismo, destinata a sfumare in men che non si dica. Per imparare occorre rielaborare: solo così ciò che si apprende diventa un patrimonio personale, le informazioni restano o comunque si possono riapprendere molto velocemente».
E SE PROPRIO NON CE LA FA...
Che cosa puoi fare, se tuo figlio proprio non ce la fa e anche un minimo esercizio di verifica a casa diventa insuperabile? «Considerare che i tempi d’apprendimento non sono uguali per tutti, che ognuno ha il suo modo di imparare e che il compito adeguato per uno studente può risultare uno scoglio per un altro anche se frequenta la stessa classe», sottolinea Daniela Boscolo. «Se il bambino non riesce a cavarsela da solo, perciò, oltre a non sostituirsi a lui, è inutile anche stargli col fiato sul collo. Meglio parlarne con le insegnanti e far loro presente la situazione. Oppure, se è già grandicello o alle medie, suggerirgli di rivolgersi ai prof spiegando loro quali sono le sue difficoltà, senza pensare che si tratti di una dichiarazione di sconfitta. Al contrario: l’insuccesso è la strada per correggere la sua prestazione. L’insegnante potrà fornirgli una nuova spiegazione personalizzata o aiutarlo a uscire dall’impasse suggerendogli un nuovo metodo. Così impara a fare da solo: è il modo migliore per riacquistare fiducia nella sua capacità di superare gli ostacoli e per ricaricare la sua autostima. A quel punto, anche l’esercizio a casa non è più privo di significato o motivo di frustrazione».
Articolo pubblicato sul n° 15 di Starbene in edicola dal 31 marzo 2015