Ti è mai capitato di osservare qualcuno e di chiederti a cosa stia pensando? Proprio al tema delle emozioni umane è dedicato il secondo capitolo di Inside out (appena sbarcato al cinema), dove Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia tornano a guidare il quartier generale della mente di Riley, ormai adolescente, stavolta insieme a quattro nuove inquiline: Ansia, Noia, Invidia e Imbarazzo.
Adatto a piccoli e grandi, questo film d’animazione tratteggia in maniera originale l’influenza delle emozioni sul comportamento e sulle decisioni prese, soprattutto durante i periodi di cambiamento e crescita. Tutto questo non vale per chi soffre di alessitimia (dal greco: a, negazione; lexis, parola; thimos, emozione, letteralmente “non avere le parole per le emozioni”), una particolare difficoltà nel riconoscere, esprimere e distinguere i propri stati emotivi.
Cos’è l’alessitimia
A parlare per primi di alessitimia sono stati due americani, lo psichiatra John Nemiah e lo psicoterapeuta Peter Sifneos, che all’inizio degli anni Settanta coniarono questo termine per descrivere un disturbo della funzionalità e della regolazione emotiva.
«Non si tratta di una patologia, per cui non è descritta nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ma di un tratto di personalità che può accompagnarsi a molti problemi della sfera psicosomatica», spiega la dottoressa Anna Scelzo, psicologa e psicoterapeuta a Chiavari, Genova. «Nell’alessitimia le emozioni non hanno modo di essere verbalizzate: è come se la persona non riuscisse a trovare la parola per lo stato emotivo che sta provando, perché non ha la “chiave di accesso” per quella sfera così intima».
Di conseguenza, tutto viene vissuto solamente a livello di sensazioni corporee: per esempio, una persona alessitimica non dirà mai di avere l’ansia o di provare una grande paura per qualcosa, ma si limiterà a descrivere una serie di sensazioni fisiche, come il batticuore o un nodo alla gola. «Non a caso, i racconti degli alessitimici sono traboccanti di dettagli, piatti e incolori, perché al loro interno manca il pathos, cioè la carica emotiva con cui solitamente raccontiamo ciò che proviamo di fronte agli eventi della vita», evidenzia l’esperta.
Quali sono i sintomi dell'alessitimia
È importante non confondere l’alessitimia con l’anaffettività: mentre la seconda è caratterizzata da un’incapacità di provare emozioni, la persona alessitimica prova emozioni ma non sa riconoscerle né sa dare un nome ai propri sentimenti.
«Il suo mondo è bianco e nero, privo di fantasia e umorismo, perché manca la tridimensionalità offerta dalla prospettiva psicologica», commenta la dottoressa Scelzo. Il risultato è una difficoltà a identificare e distinguere sentimenti ed emozioni, a comunicare agli altri quello che si prova, a comprendere o sentire gli stati emotivi e i sentimenti di un’altra persona, a usare una comunicazione carica di fantasia e immaginazione.
Quali sono le conseguenze dell'alessitimia
Diversi studi hanno dimostrato che l’alessitimia è correlata a un maggiore rischio di suicidio, soprattutto durante l’adolescenza, perché la persona viene spesso considerata bizzarra e incapace di sostenere una normale conversazione. «A quel punto, l’alessitimico si isola e inizia a pensare che la sua vita sarà sempre così, cadendo in una forte depressione», ammette la dottoressa Scelzo. Inevitabili sono le conseguenze relazionali, perché l’incapacità di riconoscere le emozioni potrebbe rendere frustrante qualunque rapporto di coppia o di amicizia.
«Dal punto di vista lavorativo, invece, gli alessitimici possono svolgere senza problemi mansioni “fredde”, come rispondere a un centralino oppure fornire informazioni a uno sportello, mentre diventa più complicato gestire una relazione profonda, empatica e meno razionale».
Quali sono le cause dell'alessitimia
L’alessitimia può essere l’esito di un’infanzia in cui è mancata una cura adeguata. «Lo sviluppo neuronale è favorito dai processi di continua regolazione emotiva, che deriva dalla possibilità offerta al bambino di esprimere il proprio disagio e le emozioni provate», descrive Scelzo. «È fondamentale che i genitori accolgano quelle emozioni e aiutino il figlio a metabolizzare ciò che sta accadendo. Al contrario, se l’emozione non viene accolta o se addirittura viene repressa, magari con frasi del tipo “Che cosa piangi a fare?” o “Non c’è nessun motivo per piangere”, il bambino inizia a considerare sbagliato provare delle emozioni e comunicarle agli altri, per cui trova modi compensativi per far fronte al suo disagio».
Ecco perché, con il passare il tempo, l’alessitimia si accompagna spesso a disturbi alimentari (gli eccessi di rabbia, impossibili da esprimere, vengono soffocati con il cibo) oppure a disturbi da uso di sostanze o di alcol (sempre per il fatto che la persona non riesce a comprendere come si deve comportare con gli altri e trova mezzi alternativi).
In altri casi, l’alessitimia può essere il risultato di situazioni traumatiche.
Un interessante libro (Affetto, trauma, alessitimia) di Henry Krystal, sopravvissuto ai lager nazisti, diventato professore di psichiatria alla Michigan State University e riconosciuto pioniere nello studio del trauma psichico, aveva mostrato frequenti casi di alessitimia fra le persone vittime di guerra, abuso, violenze famigliari o sopravvissute ai campi di concentramento. Qui c’entra il disturbo post-traumatico da stress, dove non è raro riscontrare la difficoltà a tradurre i propri sentimenti e percezioni in parole.
Alessitimia, cosa fare
In caso di alessitimia un aiuto può arrivare dalla terapia cognitivo comportamentale, che prevede una sorta di educazione emotiva, un’alfabetizzazione all’emozione.
«Magari si può lavorare su un diario personale, su libri o film, in modo da studiare le emozioni, mentalizzarle e sintonizzarsi sullo stato emotivo proprio e degli altri», tratteggia la dottoressa Scelzo. «Non si guarisce dall’alessitimia, ma si può imparare a conviverci, un po’ come accade nelle patologie croniche».
Inoltre, si impara a non provare vergogna nel raccontare agli altri che cosa sta accadendo dentro di sé, in modo da far capire dove si può arrivare e dove invece le acque emotive diventano troppo profonde.
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