Il mondo intero è in continuo viaggio. Una costante sociale, culturale e antropologica della società odierna, con quel miliardo e 400 milioni di individui (in base alle attuali statistiche, prima del crollo del muro di Berlino erano 400 milioni) che ogni anno si muovono da casa per le più svariate ragioni. Alcuni solo per fare 30 chilometri, altri per sorvolare l’oceano alla ricerca di paradisi sconosciuti; c’è chi sta via 3 giorni e chi due mesi, ma è una questione irrilevante che non toglie niente alla dimensione itinerante che contraddistingue la contemporaneità. Ma è proprio a causa della familiarità espansa con il viaggio, che ci sfugge il suo significato profondo, come concetto ed esperienza. Forse oggi messo in disparte dalle abitudini sempre più diffuse di turismo massificato e turismo virtuale?
Abbiamo girato la domanda a Rudi Capra, filosofo e autore del libro Filosofia del viaggio (Mimesis Edizioni) che esplora le diverse e attuali manifestazioni del viaggiare ma, soprattutto, ci guida a scoprirne la sua vera essenza.
Che connessione c’è tra filosofia e viaggio?
Filosofia e viaggio sono accomunati dallo stesso movimento oscillatorio. Entrambi, infatti, ci allontanano da tutto ciò che ci è familiare e ci avvicinano a tutto ciò che ci è estraneo.
Questa traiettoria da cosa è dettata?
Il viaggio ha una dimensione anacronistica. Perché in qualsiasi epoca e modo di realizzarsi, ci mette in rapporto con il nostro desiderio, che segue sempre un moto altrove. Il desiderio, infatti, per sua natura è ondivago, irrequieto, vagabondo poiché, essendo legato alla mancanza di qualcosa, ci spinge a partire e a desiderare di essere in un altro luogo, di essere altro. Il libro si pone come una riflessione sul rapporto che abbiamo con desiderio e identità attraverso il viaggio, che è capace di trasformare entrambe.
Perché viaggiamo?
Per amore del rischio. Quando ci spostiamo, infatti, siamo derubati delle nostre maschere, del nostro linguaggio, della nostra routine e, quindi, ci assale una vaga paura, con l’istinto di tornare alle abitudini e ai luoghi che ci rassicurano. Però, il corpo reagisce al pericolo rilasciando neurotrasmettitori come dopamina, serotonina, adrenalina ed endorfine, che inducono euforia, piacere e appagamento. Lo dice anche la psicologia sperimentale: gli esseri umani, come gran parte dei mammiferi, sono programmati per abbandonare gli schemi di vita consolidati e cercare nuovi stimoli, esperienze in grado di eccitarli.
C’è anche la noia, perciò, come altro grande movente?
Non solo si viaggia per paura, ma anche, forse soprattutto, per una nausea del presente, per un sopraggiunto stato di cose che ha arenato la nostra vita nel pantano della monotonia, dell’insoddisfazione, di consuetudini che confortano senza esaltare, che intrattengono senza stupire. Più che dalla possibilità di raggiungere una certa destinazione, i viaggiatori sono attirati da quella di lasciare il luogo d’origine, sfuggendo all’esistenza in cui sono immersi, o meglio, sfuggendo a loro stessi. Il desiderio di muoversi non nasce da una mancanza in particolare – quella di non avere visto il Perù, di non avere fatto immersioni nella barriera corallina, di non essere saliti sulla Torre di Pisa – ma da una mancanza in generale.
Quale mancanza?
Il filosofo de Certeau afferma che viaggiare è uno dei tanti modi di cui le persone dispongono per esplorare “la necessaria connessione del desiderio con ciò che non può avere”. Infatti, la voglia di viaggiare si nutre di una mancanza più generale e più profonda: quella di vedere altro, di fare altro, di vivere un altrove, quindi di diventare un altro, anche se solo brevemente, temporaneamente.
Vogliamo rompere le reti strutturali che condizionano la nostra esistenza?
Sì, viaggiare è la sperimentazione che più di ogni altra mette in discussione l’ordine precostituito, cioè l’orizzonte di persone, pratiche, modi di pensare che ci sono abituali (e che influiscono su di noi), dal luogo dove siamo cresciuti a quello in cui viviamo, fino al posto di lavoro o agli amici o conoscenti che frequentiamo.
Con quali esiti?
Il viaggio ci porta a sospendere le connessioni che abbiamo con il quotidiano, e ciò offre una prospettiva aerea, uno sguardo distaccato dall’alto sull’esistenza in cui si è normalmente immersi. C’è, insomma, la possibilità di contemplare la propria vita come un oggetto, cosa che non si presenta spesso nella frenesia del quotidiano, che irretisce con le sue continue piogge di situazioni, scadenze, incombenze, preoccupazioni. Nello stesso tempo, il contatto con altre realtà e modelli di vita ci porta a esaminare o anche immaginare nuove connessioni. A priori, è questa “interruzione” che ci aiuta a riflettere su quello che siamo e quello che potremmo diventare.
Viaggiare significa, quindi, rifondare la nostra identità?
Sì, se riusciamo a farlo nel modo giusto il viaggio è un’operazione di relativizzazione del nostro vissuto, che permette di allontanarci dall’alienazione del quotidiano e di fornirci nuove strategie per rinegoziare la nostra identità, allargando o rompendo i limiti consueti delle strutture reticolari (sociali, culturali, intellettive, ispirative) che la determinano. Non sono semplici fantasie, si tratta dell’opportunità di reinventarci e tornare a casa con nuove qualità acquisite.
Ma c’è viaggio e viaggio, no?
No, qualsiasi esperienza in tal senso può essere significativa. Sfatiamo il mito che solo chi fa Indiana Jones e si butta nell’avventura è il viaggiatore nel vero senso della parola. Anche il semplice turista – e lo siamo un po’ tutti perché nella maggior parte dei casi andiamo con l’intenzione di tornare a casa – che parte per una vacanza da tour operator può arricchirsi con questo viaggio. L’importante, in ogni caso, è viaggiare con un approccio ricettivo e dinamico, e non solo proteso a creare un book fotografico da postare sui social. Dobbiamo stare attenti che la connessione con il virtuale non crei una barriera con le cose che stiamo vedendo e vivendo, ciò potrebbe disturbare in profondità.
Qual è la mentalità giusta?
Occorre svuotarsi non solo di pregiudizi o preconcetti ma pure di abbondonare il più possibile valigie, oggetti tecnologici e non. Anche rinunciare a qualche prenotazione di alberghi e ristoranti non è male. Bisognerebbe lasciare che il rischio, minimo, contamini il viaggio: quando siamo “vuoti” di certezze sia intellettuali che pratiche (prenotazioni, oggetti ecc) si fa in modo che l’imprevisto inquini la nostra quotidianità, e questa sfida ci può rivelare qualcosa di nuovo di noi e del mondo.
Sembra un virus, quello del viaggio, che ha contagiato un po’ tutti, cosa ne pensa?
Adesso tante esperienze turistiche sono vendute come gioielli preziosi, auto di lusso, abiti firmati e, di fatto, viverle è diventato un vero e proprio status symbol che segnala agli altri che sei “arrivato”. Ma anche la visita a Parigi con tanto di cena in cima alla Tour Eiffel così come il soggiorno a Dubai nell’albergo da fantascienza possono essere viaggi degni di nota esistenziale. Se questi luoghi simboli di lusso sono visti con un occhio vergine, un occhio vuoto, possono aprire importanti prospettive di vita, di riflessioni. Non è che la filosofia può decidere quali sono i viaggi importanti o insignificanti, quali veri o falsi. È più un discorso che apre le porte alle potenzialità che il viaggio ha e che, magari, sono oscurate dalla sua totale mercificazione quando diventa un oggetto da acquistare invece che un’esperienza da acquisire.
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