I dati sulla diffusione dell’Hiv spesso generano confusione. Dopo i picchi degli anni Ottanta, quando il virus dell’immunodeficienza cominciò a diffondersi in Italia, c’è stato un sensibile calo ma ultimamente il numero dei contagi si è stabilizzato intorno ai 3mila casi l’anno (nel 2018, sono stati 2.847). Il numero delle persone infette, tuttavia, è in aumento.
«Questo succede perché, grazie alle terapie, la mortalità si è ridotta, quindi il numero di sieropositivi che convivono con l’infezione cresce di anno in anno», spiega Andrea Antinori, direttore Uoc immunodeficienze virali all’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani.
In tutto, in Italia si stima che siano circa 120-130mila le persone contagiate: di queste circa 15mila persone non sanno di essere portatrici del virus e quindi possono infettarne molte altre. E qui sta il punto: la trasmissione dell’infezione è molto cambiata rispetto a quando dilagava lo spettro dell’Aids, la malattia mortale alla quale il virus Hiv apre la strada.
«Se negli anni Ottanta la forma principale di contagio erano le siringhe infette e il target era quindi concentrato in gran parte tra i tossicodipendenti, oggi questo tipo di trasmissione riguarda meno del 5% dei casi. La via principale è quella sessuale e non più solo tra uomini che fanno sesso con uomini: nel 45% dei casi l’origine è un rapporto eterosessuale», continua Antinori.
Questo ha ampliato la platea a rischio, l’ha resa più eterogenea e socialmente varia e di conseguenza diventa più difficile avviare campagne mirate di prevenzione e quella diagnosi precoce che oggi può fare la differenza.
Da malattia progressiva a cronica
Chi si cura con gli antivirali di ultima generazione, che riescono a interrompere la replicazione del virus, può conviverci e allontanare lo spettro dell’Aids. La malattia, quindi, da progressiva è diventata cronica. E prima si comincia a curarsi meno gravi risultano tutte le patologie conseguenti, come quelle all’apparato cardiovascolare, al rene o al fegato.
«In più, le nuove terapie permettono di rendere innocuo il virus: vuol dire che chi c’è l’ha e si cura non lo trasmette più, neanche attraverso rapporti sessuali non protetti, come è stato dimostrato dalla comunità scientifica internazionale analizzando la vita sessuale di oltre 130mila coppie sierodiscordanti, cioè con un solo partner portatore, ma in terapia e con virus soppresso nel sangue».
Oggi quindi chi sa di avere il virus si cura e non contagia mentre chi non sa di averlo è un pericolo. Riconoscere questo tipo di infezione però è ancora difficile quanto in passato.
«Ci sono dei programmi di studio sulle cosiddette malattie indicatrici, condizioni o patologie che denunciano la presenza di una infezione da Hiv sottostante, per esempio una diminuzione dei globuli rossi, o una sindrome mononucleosica infettiva, oppure una epatite B o C, o alcuni linfomi e tumori come quelli cutanei», prosegue l’esperto.
«Ma quando le malattie-spia instillano il dubbio siamo già in una fase avanzata dell’infezione e il soggetto nel frattempo ha contagiato altre persone. Serve una diagnosi più precoce».
Basterebbe una semplice analisi del sangue per mostrare la presenza del virus, ma non è mai stato inserito tra quelli di routine se non in casi particolari come una gravidanza.
Gli studi per eradicare il virus
La scommessa finale, dopo essere riusciti a cronicizzare l’infezione, sarà quella di debellare del tutto il virus dall’organismo in modo che, anche sospendendo la cura, non si replichi. Una speranza si chiama terapia genica, cioè l’inserzione di materiale genetico all’interno delle cellule per renderle resistenti all’Hiv in modo che sia lo stesso sistema immunitario di chi contrae l’infezione a respingerla.
Due casi al mondo, uno 12 anni fa a Berlino e uno all’inizio di quest’anno a Londra, sono stati risolti proprio in questo modo: con un trapianto di cellule staminali il virus è stato sconfitto.
«Certo, il trapianto in sé non è la soluzione perché non si possono trapiantare tutti i pazienti, ma questi due casi indicano una strada potenziale nella modifica delle caratteristiche delle cellule target del virus», spiega il dottor Antinori.
La prevenzione è fondamentale
Per il momento l’arma più efficace resta la prevenzione. Resa difficile però dal fatto che il target dell’Hiv oggi è così trasversale.
«Una volta si andava negli ambienti frequentati da tossicodipendenti o omosessuali per sensibilizzare le fasce più a rischio, oggi l’infezione potenzialmente circola ovunque e l’unica arma a disposizione è insistere sull’uso del preservativo rivolgendosi ai giovani che si affacciano alla vita sessuale: il virus che potrebbero contrarre oggi si manifesterà dopo molti anni e nel frattempo il contagio dilaga», spiega Salvatore Incandela, segretario Regione Sicilia di Aogoi, l’Associazione dei ginecologi ospedalieri che nell’ultimo convegno regionale ha denunciato il preoccupante aumento delle malattie sessualmente trasmissibili a causa dello scarso uso del preservativo.
La giornata mondiale contro l’aids
È il primo dicembre: con l’hashtag #WorldAIDSDay, saranno diffuse tutte le iniziative e gli eventi dedicati. E visto che il target sono soprattutto i più giovani, cioè coloro che si stanno affacciando alla vita sessuale, il Ministero della salute in accordo con il Miur distribuirà profilattici e brochure informative nelle scuole e nelle università.
Mentre il Telefono Verde ad hoc dell’Istituto Superiore di Sanità (800861061) sarà attivo anche per tutta la giornata di domenica dalle 10 alle 18.
Altre iniziative saranno comunicate su uniticontrolaids.it.
Il Ministero sta anche lavorando a una bozza di decreto per consentire l’accesso al test per l’Hiv anche a partire dai 13 anni senza dover chiedere il consenso ai genitori.
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Articolo pubblicato sul n. 50 di Starbene in edicola dal 26 novembre 2019