Colpisce il 7% degli italiani, circa 4 milioni di persone. Rappresenta una delle cause più frequenti per cui ci si rivolge al medico e i principali esperti concordano nel definirla “una patologia ad alta prevalenza e di grande rilevanza sociale”.
Eppure, la sindrome dell’intestino irritabile non risulta inserita negli insegnamenti delle facoltà di medicina delle università. In pratica, una malattia che costa alla sanità pubblica, tra visite ed esami, quanto il diabete o l’ipertensione, per i futuri camici bianchi che dovranno diagnosticarla e curarla è una specie di fantasma: è risaputo che ci sia, se ne vedono i danni, ma è un po’ come se non ci fosse.
È anche per questo motivo, per sensibilizzare l’opinione pubblica su una patologia così rilevante e misconosciuta, che alcuni tra i massimi esperti italiani si sono riuniti nel convegno “La sindrome dell’intestino irritabile: malattia sociale tra complessità terapeutiche, innovazione e sensibilità” che si è tenuto a Roma presso l’Istituto superiore di Sanità.
Ne soffrono soprattutto le donne
A lungo chiamata “sindrome del colon irritabile” o anche “colite spastica”, oggi è definita più propriamente sindrome dell’intestino irritabile perché manda in tilt tutto l’organo. Colpisce soprattutto le donne, in misura di 3 a 1 rispetto agli uomini, preferibilmente tra i 20 e i 40 anni, per motivi non ancora chiari.
Il disturbo si presenta con sintomi cronici così fastidiosi da incidere notevolmente sulla vita di tutti i giorni: «I disturbi principali sono il dolore addominale, localizzato in basso a sinistra, stipsi o diarrea.
Ma poi anche gonfiore, tensione e borborigmi (il rumore che fa lo stomaco quando “borbotta”), talvolta associati a problemi digestivi come il reflusso gastroesofageo oppure ad altri di natura differente come tachicardia, difficoltà di respirazione e cefalea», elenca il professor Enrico Stefano Corazziari, gastroenterologo e senior consultant all’ospedale Humanitas di Rozzano (Milano).
Le cause sono ancora sconosciute
Sui motivi per cui si presenta questo problema si sa ancora poco: «Diversi studi ipotizzano una disfunzione del sistema immunitario. Altre ricerche, invece, sostengono che tutto dipenderebbe da un’ipersensibilità dell’intestino collegata al sistema nervoso.
Di sicuro c’è soltanto un’alterazione della flora intestinale, ma non si sa ancora se a causa o come conseguenza del problema», precisa il professor Corazziari.
Pur essendo una malattia cronica, può presentarsi all’improvviso, dopo un forte stress: «Attenzione, però, a non commettere l’errore di ritenere l’aspetto psicologico una causa», avverte il professor Antonio Gasbarrini, docente ordinario di gastroenterologia all’università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
«A far scattare l’interruttore del problema può essere un qualunque evento traumatico, non necessariamente dal punto di vista psicologico: può essere anche l’uso di un antibiotico, una gastroenterite infettiva, un’intossicazione da alcol, così come un lutto familiare oppure una bocciatura a scuola».
I segnali che la contraddistinguono
La sindrome dell’intestino irritabile è una malattia così seria che una commissione internazionale ha stilato negli anni dei documenti, ora alla quarta revisione, che riportano precisi criteri per definire la diagnosi e guidare il trattamento del disturbo: «Il dolore addominale deve essersi presentato, in media, almeno una volta la settimana negli ultimi tre mesi.
Inoltre, si devono verificare due o più delle seguenti situazioni: dolore associato all’evacuazione, modificazioni della consistenza o della forma delle feci», precisa il professor Enrico Stefano Corazziari.
Ma la malattia spesso è sottovalutata o addirittura ignorata dagli stessi pazienti: «Ci sono persone capaci di vivere per decenni con dolori addominali e intestino irregolare senza mai fare una visita», aggiunge Corazziari.
«Al massimo si va dal medico di medicina generale, prima di rivolgersi al gastroenterologo passano in media 10 anni o anche di più. Così il disturbo peggiora e la diagnosi diventa ancora più complicata».
I test strumentali sono inutili
Per accertare il problema non sono necessari test strumentali: «A differenza di altre malattie come il diabete, per il quale c’è la glicemia, questo problema non ha indicatori attendibili.
Può accadere, per esempio, che il referto di una colonscopia effettuata su un malato sia del tutto identico a quello di un soggetto sano», conferma il professor Vincenzo Stanghellini, responsabile del Dipartimento di malattie dell’apparato digerente e medicina interna del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna.
«Altrettanto inutili sono sia l’ecografia, sia la Tac. A sostegno della diagnosi ottenuta sulla base dalla sola visita può bastare un esame del sangue e, nei casi con diarrea, uno delle feci per individuare la calprotectina fecale, che consente di escludere altri problemi frequenti, dall’anemia alla celiachia fino alle infiammazioni intestinali», continua l’esperto.
L’anemia è uno dei cosiddetti “segni d’allarme”, che portano il medico a escludere la sindrome dell’intestino irritabile: «Oltre a questa, ci sono la familiarità con il tumore, la forte perdita di peso, il sangue nelle feci, i risvegli notturni causati dai disturbi, una massa presente localmente sull’addome individuata durante l’esame obiettivo del paziente. Se il paziente non ha ancora 50 anni e nessuno di questi campanelli d’allarme è presente, il medico è ragionevolmente sicuro della sua diagnosi», afferma il professor Corazziari.
No al fai da te
Molte persone, spesso anche per l’imbarazzo che i sintomi possono creare e la conseguente difficoltà a parlarne con il medico, tendono a trascurare il problema e a orientarsi su soluzioni improvvisate e fai da te.
Il caso tipico è quello della sindrome caratterizzata soprattutto da stipsi: convinto che il disturbo sia semplicemente la difficoltà a evacuare, si tende a ricorrere di propria iniziativa a probiotici, lassativi o preparati a base di fibre.
«E invece è il modo più sbagliato di affrontare il problema, perché questi rimedi non sono adatti, né efficaci e possono addirittura rivelarsi dannosi, confondendo il quadro clinico», avverte il nostro esperto.
«La sindrome dell’intestino irritabile è una patologia che richiede necessariamente il controllo costante da parte del gastroenterologo, che dovrà spiegare al paziente non solo come gestire la terapia, ma anche renderlo consapevole della ciclicità del disturbo», puntualizza il professor Corazziari.
La terapia ha un obiettivo chiaro: «Prolungare le fasi in cui la malattia è in quiescenza e, nello stesso tempo, insegnare al paziente come gestire nel miglior modo possibile i momenti in cui il problema torna a riacutizzarsi».
Ricorrere ai farmaci si può, ma molto dipende dai sintomi che accompagnano il problema: «Se predomina il dolore addominale, in genere si ricorre agli antispastici, tenendo presente però che possono accentuare altri sintomi come per esempio la stipsi.
Se invece prevale la difficoltà a evacuare, da qualche tempo è disponibile un farmaco innovativo ed efficace: si chiama linaclotide, ha il duplice vantaggio di avere un effetto analgesico e nello stesso tempo di saper ridurre la stipsi». Dosi e durata del trattamento vanno concordate con il medico curante perché le esigenze variano a seconda delle caratteristiche del paziente.
E quando il problema è invece caratterizzato dalla diarrea? «Per questa forma si ricorre in genere ai farmaci antidiarroici, ma anche in questo caso sta al medico valutare caso per caso», precisa il professor Corazziari. Una nota dolente: oggi nessuna terapia per la sindrome dell’intestino irritabile è rimborsata dal Servizio sanitario.
Dieta: la tua arma in più
Anche a tavola si può fare molto per rendere meno opprimente la sindrome dell’intestino irritabile. Ma attenta: «Non esistono cibi ok o vietati validi per tutti perché ognuno reagisce in modo diverso agli stessi alimenti.
Di sicuro, però, bisogna limitare per un paio di settimane, al riacutizzarsi dei sintomi, gli alimenti che fermentano nell’intestino», avverte il professor Enrico Stefano Corazziari, gastroenterologo e senior consultant all’ospedale Humanitas di Rozzano (Milano).
Qualche esempio? «Legumi, carciofi, broccoli, aglio, cachi, anguria e cereali come frumento e segale, perché contengono oligosaccaridi; mele, pere, pesche e mango a causa del loro contenuto di fruttosio; il latte e i formaggi morbidi e freschi per la presenza di lattosio. Infine ciliegie, susine, cavolfiori, funghi, più alcuni dolcificanti come mannitolo, sorbitolo e xilitolo».
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Articolo pubblicato sul n. 28 di Starbene in edicola dal 27/6/2017