Sono cellule neonate, primitive, che non hanno ancora deciso che cosa faranno da grandi. Al centro della ricerca internazionale, le cellule staminali sono già in grado di curare diverse patologie, in virtù del loro potere rigenerante. Ecco i loro principali campi di applicazione.
Riparano le cartilagini
Con l’avvento della bioingegneria tissutale, le cellule staminali sono diventate protagoniste della riparazione delle cartilagini articolari, grazie a una tecnica “made in Italy” chiamata IORG1.
«Con un intervento in day-hospital, dalla cresta iliaca del paziente (nella zona del bacino) si aspira un campione di sangue midollare, si isolano le cellule staminali unitamente al brodo di cultura in cui vivono (la cosiddetta “nicchia midollare”) e si applicano sulla lesione, dopo averle trasferite su un supporto di collagene», spiega il professor Sandro Giannini, emerito di ortopedia e traumatologia all’università di Bologna-Istituto Ortopedico Rizzoli.
Il movimento è immediato, con l’unica accortezza che per 4 settimane non si può caricare l’arto, e dalla 4ª alla 6ª si può iniziare con un carico parziale. «Attecchendo, le staminali innescano un processo rigenerativo che, come dimostrano gli studi, prosegue fino a 18 mesi dall’intervento».
Forte dei risultati, la tecnica IOR1 viene oggi impiegata non solo per riparare le lesioni focali (cioè parziali) delle cartilagini, ma anche per quadri artrosici più gravi, con un danno cartilagineo esteso fino al 50%.
L’importante è rimuovere il problema alla radice: se la causa a monte è un ginocchio molto varo o valgo, che porta a un cattivo allineamento della rotula (con gambe arcuate o a x), occorre correggere il difetto con un intervento chirurgico ad hoc, oltre a riparare la cartilagine. Altrimenti, la lesione tende a non guarire.
«Il potere rigenerante delle cellule staminali viene sfruttato anche per saldare fratture che non consolidano (come in caso di pazienti diabetici o forti fumatori), utilizzando però come matrice di supporto dell’osso demineralizzato preso dalla “banca dell’osso” o di origine sintetica (idrossiapatite di calcio)», puntualizza il professor Giannini. «Inoltre, le cellule staminali si utilizzano negli interventi di “artrodesi”, quando si rende necessario bloccare un’articolazione, nonché in caso di cisti o cavità ossee dovute a tumori benigni, per colmare la perdita di sostanza che queste comportano».
Combattono i tumori nel sangue
Da oltre 40 anni le cellule staminali vengono utilizzate per curare i tumori del sangue, come certe forme di leucemia, linfomi e mielomi. E negli ultimi dieci anni, la maggiore capacità di prevenire e gestire le complicanze, insieme all’affinamento delle procedure di trapianto, hanno aumentato la probabilità di successo della terapia.
In che cosa consiste? «Prevede la reinfusione nel paziente, dopo chemioterapia, di cellule staminali progenitrici emopoietiche (cioè cellule multipotenti in grado di differenziarsi in alcuni tipi di cellule del sangue), destinate a risanare e ripopolare il midollo osseo di nuovi globuli rossi, bianchi, piastrine e cellule del sistema immunitario», spiega il dottor Andrea Mengarelli, direttore della ematologia dell’Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma.
«In base al tipo di patologia e alla storia clinica del paziente, l’ematologo sceglie se effettuare un trapianto “allogenico” con cellule staminali compatibili o semicompatibili provenienti da donatore, oppure “autologo”, cioè con cellule staminali proprie (e, in questo caso, non c’è il problema della compatibilità immunologica). Le fonti di reperimento sono diverse: possono essere estratte dal midollo osseo e dal cordone ombelicale, ma anche dal sangue periferico mediante una macchina chiamata separatore cellulare, una volta che il paziente o il donatore vengano trattati con farmaci (fattori di crescita granulocitari) che stimolano le cellule progenitrici emopoietiche a migrare dal midollo osseo per raggiungere una sufficiente concentrazione nel sangue venoso».
Le percentuali di guarigione con questa tecnica di trapianto ormai consolidata sono molto buone, sia che si tratti di quello allogenico o di quello autologo. Il primo, pur garantendo minori recidive del tumore, espone a un rischio di rigetto e della cosiddetta “malattia del trapianto contro l’ospite”, una complicanza che si verifica quando le cellule immunologiche reagiscono contro alcuni organi del paziente.
Aumentano le dimensioni del pene
L’incubo degli uomini? Avere il pene piccolo e soffrire di défaillances sessuali.
In caso di ipoplasia peniena (presente quando il pene in erezione ha una lunghezza inferiore a 7,5 cm e una circonferenza di 4 cm), al posto di inserire protesi invasive si può ricorrere al Nanofat, l’autoinnesto di grasso prelevato dall’addome.
«Il pannicolo adiposo è ricchissimo di cellule staminali che, una volta impiantate nel tessuto dell’asta del pene, liberano fattori di crescita e di rigenerazione tissutale», spiega il professor Giuseppe Sito, specialista in urologia e in chirurgia plastica a Napoli, Torino e Milano. «Inoltre, hanno un’azione stimolante anche sui corpi cavernosi che, gonfiandosi di sangue come una spugna, assicurano un’erezione soddisfacente».
La tecnica è semplice: il grasso prelevato con una microcannula viene ultrafiltrato tramite un sistema di “beccucci” sempre più piccoli e una membrana finale che lo rende semifluido. Quindi, dopo aver applicato una crema anestetica, viene iniettato come un filler con un ago sottile sotto la pelle che ricopre l’asta e tutt’intorno ad essa.
«Arricchito di cellule staminali, il tessuto riacquista elasticità e turgore, con un aumento della circonferenza di circa 4 cm e di 2 cm in più in lunghezza già dopo una settimana», precisa Sito. «Oltre alle dimensioni migliorano anche i deficit erettili, che possono essere associati o meno all’ipoplasia peniena, in quanto indipendenti dalle misure. Ma, in questo caso, è bene associare l’autoinnesto di staminali alla Prp (Platelet rich plasma) che prevede l’iniezione di piastrine ottenute da un proprio prelievo di sangue. I risultati durano un anno». I costi? 2000 € a seduta per le staminali, e 400 € per la Prp.
Permettono di rinfoltire i capelli
Se soffri di alopecia androgenetica o areata, le cellule staminali possono darti un aiuto.
«La più innovativa tecnica consiste nell’asportare un sottile lembo di pelle da una zona del corpo nascosta (in genere, i glutei) dal quale ricavare cellule epidermiche ricche di staminali», spiega Elisabetta Sorbellini, dermatologa a Milano, responsabile del comitato scientifico di IHRF (International Hair Research Foundation). «Il “quadratino” di pelle, grande 6 cm², viene asportato in anestesia locale e l’area guarisce, come un graffio, in pochi giorni. La pelle viene quindi disciolta in una soluzione di tripsina, l’enzima che rompe i legami tra le cellule epidermiche. Si ricava quindi, una sospensione cellulare in cui “nuotano” diversi tipi di cellule, tra cui le staminali cheratinocitarie pronte a rivitalizzare i bulbi piliferi».
Diluita con soluzione salina, questa sospensione cellulare viene iniettata nel cuoio capelluto, per 40-60 microinfiltrazioni. Se avanza, si congela e si utilizza per un’altra seduta. «Gli studi dimostrano che in 6-8 mesi si ha un ispessimento dei capelli e un rinfoltimento delle zone, perché le staminali migliorano il metabolismo cellulare dei bulbi, apportando nutrimento e vitalità». Il costo? 1700 €.
Riempiono il seno dopo un tumore
Le donne che hanno subìto una mastectomia (asportazione totale della mammella) o una quadrantectomia (asportazione parziale) possono oggi contare su un valido alleato per tornare a sfoggiare un bel décolleté: il proprio grasso ricco di cellule staminali, utilizzato dal chirurgo plastico come supporto alla ricostruzione mammaria.
«Grazie al lipofilling, il grasso viene prelevato dall’addome o dall’interno cosce (le zone adipose più ricche di staminali), purificato e reiniettato per ripristinare forme e volumi originari, a complemento dell’impianto di protesi mammarie o per “riempire” vuoti e correggere difetti lasciati dalla quadrantectomia», spiega il dottor Giovanni Palitta, responsabile dell’Unità operativa di chirurgia plastica della Breast Unit del Policlinico di Monza.
«Non solo. Le cellule staminali del grasso migliorano le cicatrici (specie quelle retraenti, molto antiestetiche) e la qualità della pelle del seno, migliorandone la vascolarizzazione. Tant’è che questa tecnica viene usata anche per rigenerare l’epidermide della parete toracica affetta da radiodermite, cioè assottigliata e “ustionata” per colpa della radioterapia oncologica. In questo caso, prima di procedere alla ricostruzione mammaria, si effettua una “lipostruttura di parete”».
In fase sperimentale la cura dell’angina
L’utilizzo delle cellule staminali per curare le malattie cardiache è ancora in fase sperimentale. In Italia, un polo di ricerca d’eccellenza è il Centro Cardiologico Monzino di Milano, dove è in corso una sperimentazione per curare l’angina pectoris, refrattaria sia alla terapia farmacologica sia al trattamento chirurgico con by-pass o angioplastica.
«Si tratta di una patologia che provoca fitte dolorose al petto, spesso accompagnate da senso di affanno, dovute a un’ischemia (insufficiente irrorazione) del muscolo cardiaco», spiega il professor Giulio Pompilio, cardiochirurgo e vicedirettore scientifico del Centro cardiologico Monzino.
«L’intervento di medicina rigenerativa consiste nel prelevare del sangue midollare dalla cresta iliaca del paziente e lavorarlo con un sofisticato apparecchio in modo da selezionare particolari cellule staminali chiamate CD133. In un secondo intervento, queste vengono inoculate nelle aree del cuore maggiormente colpite da ischemia tramite un piccolo catetere inserito per via percutanea e fatto scorrere nell’arteria femorale, come avviene per la coronarografia. Le cellule staminali CD133 liberano fattori di crescita vascolare che, nell’arco di sei mesi, riescono a dar vita a nuovi, piccoli vasi pronti a migliorare l’irrorazione del miocardio».
I pazienti trattati finora, hanno registrato un netto miglioramento dei sintomi e una riduzione delle zone ischemiche, apprezzabile con la scintigrafia. «Risultati promettenti stanno dando anche altre sperimentazioni in corso nelle università americane ed europee per curare con le cellule staminali l’insufficienza cardiaca grave», aggiunge il professor Pompilio.
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Articolo pubblicato sul n. 9 di Starbene in edicola dal 13/02/2018